Un attivista siriano come lo conoscevo

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Il defunto Raed Fares non ha mai esitato a protestare contro il governo di Assad nonostante l’evidente pericolo

Di Zaina Erhaim. Pubblicato il 16 marzo 2022 su New Lines Magazine (Traduzione di G.De Luca)

Raed Fares /Foto per gentile concessione di Lina Sergie Attar

Mi ci sono voluti anni per scrivere di uno dei siriani più intelligenti e coraggiosi che abbia mai incontrato, che ho avuto la fortuna di chiamare amico. Poco più di 10 anni fa, ho scritto un articolo su Raed Fares e il fumettista Ahmad Jalal per il quotidiano panarabo Alhayat.

È stata la prima volta che sono stati presentati come individui in un servizio giornalistico, dopo che i poster che avevano realizzato nella città di Kafranbel, nel nord della Siria, erano diventati virali e i media internazionali ne hanno parlato, abbellendo con essi persino i muri delle sale nelle quali avevano luogo alcune missioni diplomatiche straniere nella regione.

Feci l’intervista via Skype, dato che mi trovavo a Londra per finire il mio master. “Dragon mouth fire” era il nome utente dell’account di Raed, cosa che mi lasciò confusa. Perché la mente matura intelligente dietro quei messaggi avrebbe dovuto scegliere un nickname così infantile?

Il suo stato, tuttavia, era “Ho un sogno”.

Se fosse stato ancora tra noi, Raed sarebbe corso in giro per la sua città questa settimana per finalizzare tutti i dettagli per la celebrazione dell’anniversario della rivoluzione. Ogni marzo durante otto anni era così stressato preparando nuovi poster creativi e pertinenti insieme a slogan mirati, mentre rispondeva a infinite domande della gente del posto sul loro ruolo negli eventi a venire. Aveva l’abitudine di rinunciare al sonno e al cibo per un paio di giorni, nutrendosi di caffè e sigarette fino alla fine dell’anniversario. Partendo dal presupposto che il regime non avesse bombardato la celebrazione e che nessuno fosse stato ferito, avrebbe poi riposato.

La gente della sua città, Kafranbel, non era sorpresa che lo studente di medicina che lasciò la sua università per lavorare nel settore immobiliare si fosse trasformato in un leader nazionale che aveva catturato l’immaginazione delle persone all’estero con la sua satira e la sua energia. Con coraggio e determinazione, aveva tutte le carte in regola per essere un’icona della libertà.

Per il mondo, Raed è stato uno degli attivisti più importanti della Siria, noto per gli accattivanti striscioni di protesta e per le influenti trasmissioni “Radio Fresh”. Per me, è stato l’ultimo collegamento con la rivolta pionieristica. Dalla sua morte, ho smesso di partecipare a qualsiasi evento nel suo anniversario.

Ho citato nell’articolo le sue parole: “Abbiamo capito sin dalle prime settimane della rivoluzione che i media erano al centro della nostra battaglia con il regime, quindi dovevamo trovare qualcosa di abbastanza attraente da consentire al mondo di notare le nostre manifestazioni, quindi abbiamo pensato a questi manifesti, che abbiamo scritto in arabo, inglese e persino russo e cinese”.

Raed voleva usare il suo vero nome nel mio articolo, mentre la stragrande maggioranza degli attivisti siriani usava allora noms-de-guerre, temendo rappresaglie da parte del regime. Ero riluttante a farlo, ma mi disse: “Dall’aprile di quest’anno ho partecipato alla rivolta con il volto scoperto, il nome completo, i poster e persino la mia bara [i manifestanti l’ hanno tenuta per indicare che erano pronti a morire per la causa], e ciò mi ha portato a essere costretto a lasciare la mia casa e la mia famiglia alle spalle per vivere in una tenda in montagna con al-ahrar [persone libere] che condividono gli stessi sogni”.

Inserii il suo nome nel pezzo e conclusi il mio articolo con la sua citazione: “La nostra paura della morte e del regime sono svanite, il nostro umore è alto come il cielo e vinceremo presto”.

Tornai in Siria un paio di mesi dopo, all’inizio del 2012, e Raed venne, con Ahmad, a prendermi al confine turco.

Nella prima conversazione che ebbi faccia a faccia con Raed, gli dissi che se fosse sopravvissuto ai bombardamenti e all’arresto arbitrario, sarebbe stato sicuramente ucciso in un incidente d’auto, mentre guidava come un maniaco fino a Kafranbel. All’epoca i militari siriani erano ancora presenti in alcune zone di Kafranbel, quindi evitammo i loro posti di blocco e andammo nella piazza principale che era divenuta una sorta di un’icona per le proteste.

Indossavo un velo su richiesta di un amico, Omar, che mi accompagnava. Ma quando siamo arrivati ​​in piazza, Raed mi chiesi perché lo indossassi. Gli dissi di essere stata costretta da Omar, rimase shockato. “Asho [cosa]! Non ascoltarlo! Toglilo e coloro che osano mettere in discussione le tue libertà personali qui avranno a che fare con me, sono un ‘arsa; non mi conosci ancora. ‘Arsa è una parola profana che Raed e la maggior parte degli uomini di Kafranbel usavano sempre e che ha significati contraddittori. Letteralmente significa “magnaccia” ma nell’uso comune significa spregevole. Ma lo usavano per complimentarsi e diffamare qualcuno allo stesso tempo. Un ‘arsa era quindi o uno di noi o uno stronzo. Mi tolsi il velo e ci fermammo per una foto ricordo che mostra Omar imbarazzato e Raed che ridacchia. Trascorsi un paio di giorni con loro nell’ ufficio stampa. Era un alveare affascinante, uomini che entravano e uscivano continuamente, giornalisti locali e internazionali lo usavano come hub, “madafa” (pensione), ostello e ristorante tutto in una volta. Stavano coprendo tutte queste spese dei loro ospiti e si rifiutavano di ricevere anche un centesimo o un pasto dai visitatori. Per pagare una cena, andai da sola al suk per comprare il cibo e mi accusarono di aver rovinato la loro reputazione. Lavoravano più di 20 ore al giorno, gli occhi sempre gonfi e arrossati, lavoravano a turni in modo che un membro del team fosse sempre in attesa se venisse chiamato per filmare un attentato o un attacco o per offrire qualsiasi altro tipo di aiuto. Notai anche che Raed e il team mangiavano hawader – tapas locali a base di formaggio, timo e yogurt – quando erano da soli. Ma quando avevano ospiti nell’ufficio stampa, portavano pollo e carne, nonostante il budget modesto che avevano, che consisteva solo in donazioni inviate da espatriati. Un anno dopo, all’inizio del 2013, tornai a Kafranbel. L’esercito siriano aveva lasciato la città, il che significava più libertà di movimento ma anche più barili bomba e attacchi aerei. Tuttavia, le proteste settimanali, che avevano catturato l’immaginazione di un pubblico globale, continuavano.

Banner di protesta di Raed Fares / Fotografia per gentile concessione di Lina Sergie Attar

Il venerdì era diventato molto stressante per Raed, poiché era sottoposto a molti livelli di pressione. C’erano grandi aspettative su ciò che i rivoluzionari di Kafranbel avrebbero detto e fatto, poiché molti occhi erano puntati su di loro. Poi sarebbe arrivato lo stress della scadenza di finalizzare le frasi e i dipinti che sarebbero apparsi sui manifesti e il controllo della lingua con gli anglofoni prima che il calligrafo li disegnasse sui manifesti, per non parlare del rischio quotidiano di essere presi di mira da bombardamenti indiscriminati. E soprattutto, i civili che cercavano disperatamente di dare un senso all’insensata punizione casuale che avevano dovuto affrontare e avevano iniziato a incolpare chiunque avesse in mano una telecamera di aver causato gli attentati.

Raed non aveva dormito né mangiato la notte prima, nutrendosi di sigarette e caffè. “Sai, Zaina, se l”arsa [Bashar al-Assad] bombarderà i manifestanti oggi, vorrei essere tra i cadaveri. Altrimenti la gente mi mangerà vivo”.

Fotografò i manifesti davanti al media center mentre uscivamo, nel caso non fosse stato in grado di farlo durante le manifestazioni se fossero stati bombardati.

Quando arrivammo ​​a quella che era diventata nota come Piazza della Libertà, dove avevamo scattato la nostra fotografia un anno prima, cadde il primo mortaio, seguito da un altro paio provenienti da Wadi al-Daif, una vicina base militare.

Il caos dominava i sensi. La polvere degli edifici bombardati mi accecava gli occhi. Corsi verso il muro più vicino, aspettando che le incursioni finissero.

Per fortuna quel giorno non ci furono vittime e la manifestazione fu annullata. Quando finalmente trovai Raed, era sollevato, ridendo ad alta voce, proclamando: “Ce l’abbiamo fatta ancora un’altra settimana!”

Non capivo come potesse gestire tutta questa pressione ogni singolo venerdì e in più come fosse ancora in grado di produrre satira intelligente, campagne di solidarietà transnazionale e mantenere la sua profonda fede nei diritti umani.

La leggenda dell’epica creazione di striscioni, Raed Fares, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco nel novembre 2018/ Fotografia per gentile concessione di Lina Sergie Attar/ New Lines

Quell’anno, gli islamisti iniziarono a guadagnare più territorio e influenza e le dinamiche di potere stavano cambiando. Nel 2012 dicevamo alle milizie armate che facevamo parte dei media per evitare di essere interrogati, mentre nel 2013 cercavamo di nascondere la telecamera e affermare di essere locali per non essere interrogati.

Nonostante ciò, quando Raed mi stava accompagnando da Kafranbel ai valichi di frontiera turchi, mi chiese di sedermi accanto a lui sul sedile anteriore.

“Sei la nostra giornalista! Sarebbe vergognoso se ti facessimo sedere sul sedile posteriore! Ahmad l”arsa siederà in fondo”, ha detto.

Avevo il terrore di causargli problemi, dato che non indossavo il velo e non avevo un parente maschio “tutore” di primo grado che mi accompagnasse, ciò era diventata qualcosa che le donne dovevano avere per potersi muovere nella Siria settentrionale.

Ogni volta che ci avvicinavamo a un checkpoint andavo nel panico, perché sapevo che quello che sarebbe stato punito per le mie azioni era lui, non io. Ero una donna e non sarei stata trattata come se avessi un’agenzia.

A un posto di blocco, un giovane uomo armato si avvicinò a lui con uno sguardo scioccato chiedendogli chi fossi e perché non indossassi il velo. Raed rispose: “Lei è una giornalista di Idlib. Sta lavorando per la rivoluzione come te. Nessuno ha il diritto di chiederle cosa indossa o non indossa”.

Quando arrivammo ​​al valico di Bab al-Salamah, a Raed fu chiesto se fosse il mio “mohram” (custode maschio), e lui rispose con voce ferma che non ero sua parente, lasciando l’uomo armato sbalordito. Per ribadire ulteriormente il suo punto – questa volta schernendo la situazione che disdegnava – iniziò a chiamare i suoi compagni “venite a vedere cosa abbiamo qui; questo hurma [un termine arcaico per donna] è in giro con due uomini che non sono suoi parenti”. Altri uomini vennero da noi per assistere a quello che in effetti sembrava loro uno spettacolo divertente.

Gli uomini armati presero Raed per interrogarlo. Fu la prima e l’ultima volta che lo vidi arrabbiato. Un paio di mesi dopo vidi una foto dell’uomo che aveva interrogato Raed in piedi con il senatore John McCain quando visitò questo incrocio il 28 maggio di quell’anno.

Entro l’estate, la nostra capacità di discutere con tali uomini armati era svanita quando il gruppo dello Stato Islamico aveva iniziato a guadagnare importanza.

Quell’estate, l’attivista mediatico Mohamad Nour Mattar vennerapito dal gruppo a Raqqa. Lo conoscevo anch’io e la sua famiglia mi aveva ospitato quando andai a lavorare lì. Chiesiad AhmadJalal di scrivere su un poster e Raed mi fece una foto mentre lo tenevo.Diceva: “Libertà al mio amico Aktham Abu Alhusn dalle prigioni statali di Assad e a Moh Nour Mattar dalle prigioni dello Stato islamico della Siria e dell’Iraq”.

Raed lo ha pubblicò poi sulla pagina principale della sua squadra, l’inizio di una serie di azioni che lui e il suo gruppo avevano intrapreso contro gli estremisti. E di nuovo stava attaccando a viso scoperto.

Di solito decine di uomini si univano a lui nelle foto mentre reggevano i manifesti con messaggi anti-regime. Ma ora meno persone stavano al suo fianco mentre teneva in alto i manifesti che deridevano e sfidavano gli estremisti.

Ahmad Jalal, che aveva

Tutto ciò aveva attirato altre minacce, che avevano portato al primo tentativo di omicidio contro di lui nel gennaio 2014, in cui Raed fu colpito a colpi di arma da fuoco davanti alla sua casa, con tre proiettili che gli perforarono il petto.

Mi trovavo nella vicina città di Maarat al-Numan quando lo seppi e la mattina seguente

Ero l’unica donna lì ed ero così arrabbiata che la sua sicurezza non era stata presa sul serio anche dopo che gli avevano sparato.

Quando mi vide, rise, con un po’ di dolore che mostrava i suoi lineamenti, e disse: “Ora sono guarito. Il giornalista più importante di Idlib viene a trovarmi. Non c’è più niente che voglio. Sono pronto per essere colpito di nuovo. Cosa vuoi bere?”

Durante la visita cercai di convincerlo a lasciare la Siria, anche per un breve periodo, ma fu in vano.

L’ultima volta che lo vidi, a Idlib nel 2015, fu per un corso di giornalismo per donne. Raed sembrava più spaventato di quanto lo avessi mai visto. Aveva installato un allarme nella sua macchina e aveva coperto i finestrini con persiane. Si muoveva come un fantasma nella sua stessa città e raramente tornava a casa.

La stessa radio era stata perquisita molte volte da Hay’at Tahrir al-Sham (o HTS, un gruppo estremista affiliato ad al-Qaeda). HTS aveva ordinato a Raed e al suo team di impedire alle donne di andare in onda, perché le loro voci erano “haram” (proibite) e non dovrebbero essere state ascoltate da estranei. Così la stazione radiofonica iniziò a modificare le voci delle presentatrici, rendendole un tono più basso per farle sembrare più maschili, e mantenne le 50 giornaliste, capofamiglia per le loro famiglie, a lavorare per la stazione radiofonica fino agli ultimi giorni della sua vita.

Nell’estate del 2018, nell’ultima conversazione che avemmo prima del suo assassinio, avvenuto diversi mesi dopo, gli dissi: “Ci farai venire attacchi di cuore con il numero di assalti e attacchi contro di te ogni due mesi”.

Rispose: “Dio prende solo le brave persone, io sono un ‘arsa. Non preoccuparti.” E poi morì.

Fu assassinato con il suo compagno Hamoud Jneed nella loro città da uomini mascherati che spararono alla loro macchina finché non furono sicuri che le loro vittime fossero morte.

Per molti, la rivoluzione pacifica è stata pugnalata al cuore da questo

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