Articolo di Yassin Al Haj Saleh, pubblicato il 14 gennaio 2020 su alquds.co.uk (Traduzione di G. De Luca)
Ad una prima analisi, il rapporto tra l’individuo atomizzato e quello ferocemente sanguinario tende a supporre una contraddizione. I leader politici sanguinari, militari o religiosi, sembrano essere personalità con una forte determinazione e un pensiero fisso: nulla deve ostacolare il raggiungimento di ciò che si prefiggono di fare. Dall’altra parte, gli individui atomizzati sembrano abulici, gretti, incapaci di fare qualcosa di importante nel mondo. Inoltre, ad impedire la possibilità di un rapporto diretto tra individui atomizzati e sanguinari troviamo una delle peggiori tendenze umane: l’ammirazione per il violento, la sopravvivenza del più forte, data dalla sua intelligenza e dalla sua lungimiranza. Per questo, diventa quasi un istinto naturale disprezzare le vittime, se non addirittura ritenerle responsabili di ciò che accade loro. Perchè il criminale violento è grande, autorevole, mentre la vittima è meschina.Potrebbe però essere necessario iniziare a dire qualcosa su questo aspetto. Anzitutto, non ci sono persone meschine tra gli uomini, ma nemmeno individui immuni alla meschinità. Una persona si sente insignificante nella misura in cui la sua formazione è incentrata su esperienze che instillano in lui un sentimento di passività e disinteresse. L’atomizzazione è la formazione della propria natura attorno a una sensazione potenziata dal fatto che siamo in secondo piano, anonimi, rispetto ad altri che sembrano sempre godere di più alte considerazioni. Questa sensazione può essere dovuta all’aspetto fisico (e quasi nessuno è soddisfatto del proprio aspetto), o alle esperienze infantili umilianti – inclusa l’esposizione alla violenza o alla sofferenza causata dalla povertà. Può essere causata dal disprezzo all’interno della famiglia o dallo stigma dell’ambiente circostante.Oppure ancora può essere generata dalle modeste origini sociali, in ambienti che glorificano l’opulenza e disdegnano l’umiltà. Osservando da vicino le persone più sanguinarie che conosciamo in Siria e nel mondo arabo, può sembrare invece che non ci sia contraddizione tra determinazione sadica e solitudine.Appaiono individui atomizzati personaggi come Bashar al-Assad e suo padre prima di lui; il califfo al-Baghdadi e prima di lui Abu Musab al-Zarqawi; Samir Ka’akeh, Omar al-Dirani; e inoltre Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. Come per Hitler e Stalin, anche per loro il potere sugli altri è la fonte stessa dell’amore verso gli altri. L’inquietante insistenza di personaggi del calibro di Hafez al-Assad, Saddam Hussein, Muammar al-Gheddafi, Stalin e Hitler sulla loro grandezza ed eccezionalità, ribadita instancabilmente dal loro apparato, permette loro di trasmettere all’esterno una sete di gloria e di prestigio, riflettendo al contempo un senso di mediocrità. Nello stesso tempo, questa insistenza indica la terribile crudeltà verso coloro che non li glorificano, o con coloro che li trattano alla pari. Si può immaginare che una persona priva di questa smania di riconoscimento del proprio valore non sarà così preoccupata di guadagnarne altro, lodandosi e abusando di coloro che non lo fanno. Inoltre, la meschinità come sentimento e relazione con il sé porta alla vanità estrema: una condizione che non può essere mai scalfita, vista la costante ossessione per i trionfi e i successi. Stalin era fissato con i grandi progetti. Saddam Hussein era un amante della gloria e si attribuiva vittorie militari e civili. Come Hafez al-Assad, innamorato di se stesso, che aveva a sua disposizione i media pubblici per lodare il suo eroismo, il suo genio e le sue “conquiste”. E per questo faceva erigere statue di se stesso in tutte le città della Siria, per considerarsi un unicum.
Forse la misura esatta del loro anonimato si trova in ciò che queste persone hanno lasciato in eredità. Con le parole di al-Kawakibi: non ci sono reali conquiste importanti su cui costruire, né eroismi morali, tutti hanno portato il proprio popolo o una parte di esso verso una maggiore sofferenza e distruzione. La banalità dei risultati prevale sulla banalità dei motivi. Il titolo del libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann a Gerusalemme è tradotto erroneamente ne “La banalità del male”: sembra cioè essere stato interpretato erroneamente ciò che è il male. Questo è uno sfortunato malinteso. Il male non è mai banale: la tortura, lo stupro, l’omicidio e le stragi non sono cose banali. Ma i sanguinari possono essere oltremodo meschini, sia in termini di motivazioni sia in termini di storia e retaggio.Sarebbe più appropriato tradurre “La banalità del male” ne “La volgarità del male”. L’idea della Arendt è che il male non provenga da profondità oscure, da una predisposizione degli individui, dalle tendenze sadiche o perverse che sono insite in alcuni di noi. Il male è il prodotto di predisposizioni comuni e ordinarie, come la disciplina, l’obbedienza e l’ambizione di carriera di un individuo atomizzato. Il male quindi non è radicale: emana da una decisione deliberata e da un intento premeditato, come suggeriva la stessa autrice nel libro “Le origini del totalitarismo”. Solo la bontà può essere radicale, provenendo dal profondo dell’anima attraverso un atto di contemplazione e consapevolezza.Il male è superficiale, è la diffusione di qualcosa senza radici. È il prodotto di situazioni e relazioni caratterizzate dall’incapacità di pensare, soprattutto circa la posizione degli altri, quindi di reincarnarsi. L’incapacità di pensare divenne possibile e comune nelle macchine burocratiche e nelle docili strutture del potere, dove la responsabilità delle azioni veniva trasferita ai leader, come dimostrato dal famoso esperimento di Milgram (ispirato dalle idee di Arendt sul male e l’obbedienza). La coscienza, secondo la Arendt, è un prodotto del pensare, inteso come dialogo con se stessi che riflette il nostro dialogo con gli altri. Cosa potrebbe impedirci di pensare con gli occhi degli altri? Oltre alla sottomissione verso le strutture del potere burocratico, al distanziamento delle azioni e alle loro conseguenze con l’effetto della modernità; oltre alla complessità della divisione del lavoro – che Zygmunt Baumann ha approfondito nei suoi studi sull’Olocausto e la modernità – si può pensare alla vittimizzazione, cioè alla percezione di qualcuno di noi come vittima. Ovvero il venir meno dell’ingiustizia dato dal sentirsi sempre nel pieno diritto, il tendere verso la giustizia con le nostre azioni, però in modo che ciascuno di noi si consideri un giusto ai suoi stessi occhi – non per niente ma solo perché ha subito un torto. Questo è falso: la giustizia è una cosa positiva, una cosa buona che facciamo per gli altri, non sorge da qualcosa di male che ci è stato fatto o che abbiamo sperimentato. Piuttosto, è più probabile che l’oppresso non sia giusto nei confronti del proprio carnefice, perché gli manca un ingrediente fondamentale per esercitare un’azione giusta, l’imparzialità.
Deduciamo quindi dall’esistenza del vittimismo l’assenza di giustizia, non che gli oppressi siano giusti. L’oppresso può essere ingiusto e sadico, anche se l’oppressione cui è stato sottoposto è reale. Questo avviene a causa di un tipo di ingiustizia che non ha fondamento reale: c’è infatti una componente immaginaria anche nell’ingiustizia, quella collettiva in particolare, e può accadere che sia ereditaria come ha dimostrato Baumann nel suo libro sugli ebrei sionisti. L’effetto della vittimizzazione che impedisce di pensare e impersonare gli altri è l’autoadesione, la tendenza costante a incolpare l’altro e a sospettare di lui. Il vittimismo genera vanità, in quanto dispensa dal fare del bene e dal sentire per gli altri. Al contrario, confina il bene al solo gruppo vittimizzato, cioè al gruppo attorno al quale si forma un sentimento di discriminazione.Questo fenomeno può essere compreso attraverso il pensiero di Hannah Arendt, ma non coincide con la sua concezione della “banalità”.Questa parola non dovrebbe essere abbinata a quel concetto. “Banale” significa grosso modo “ordinario” o “volgare”, per così dire. Pertanto, il traduttore che utilizza la parola corrispondente alla parola araba tafahah deve spiegare il processo di approssimazione semantica che ha intrapreso.Ci riferiamo a questo termine considerando la Arendt, perché facilita il passaggio dall’atomizzazione degli individui analizzata all’inizio di questo articolo a quella che potrebbe essere chiamata “atomizzazione collettiva”. Anche qui si incontra nella definizione di atomizzazione un radicato sentimento di umiliazione e anonimato, con una scarsa rilevanza di azioni generose e altruistiche, che lascia in eredità pratiche di crudeltà, spargimento di sangue e vendetta, motivate dall’oppressione collettiva. Il vittimismo è una via verso l’atomizzazione sociale nella misura in cui definisce gruppi elitari o nel modo in cui questi si formano intorno al concetto di vittima.È anche una tendenza alla vanità degli individui che si formano intorno a esperienze umilianti o a un sentimento di discriminazione o inferiorità. È possibile considerare anche la proporzione tra lo spargimento di sangue e la gravità della vittimizzazione. In un articolo precedente ho insistito per dimostrare che le sette, tra le altre cose, sono strutture per il risentimento collettivo. Conosciamo il legame tra settarismo e spargimento di sangue in Siria, Libano, Iraq, Yemen… ovunque. Ma raramente si è scritto che le sette sono strutture atte a creare un legame frivolo, o che sono organizzazioni per l’atomizzazione collettiva: più egoiste di quanto possano essere gli individui più egoisti, sono realtà non adatte al progresso intellettuale e morale – perchè trascinano gli individui più identificati con loro verso l’odio e il sangue, li spingono ad aderire a ciò che li differenzia di più dagli altri.Non importa quanto formale e banale sia questo fenomeno. Vari circoli sunniti siriani – in misura proporzionale al loro settarismo, che a sua volta è commisurato sul vittimismo collettivo – hanno mostrato tratti sanguinari che indicano, da un lato, come essi abbiano rinunciato al lavoro sull’autoriforma, e in secondo luogo, hanno elaborato progetti in cui la vanità si mescola al sangue.
È una miscela che caratterizza il regime della dinastia di Assad e il suo apparato omicida, in cui la Siria è impantanata da decenni. Il radicamento del settarismo nell’era asadista è un aspetto della meschinità pubblica e della brutalità generale.Tuttavia, l’atomizzazione collettiva non si limita alle sette: non è intrinsecamente o strettamente correlata all’essenza di gruppi particolari.In realtà non ci sono gruppi fondamentalisti o di persone “banali” che non siano anche atomizzati, così come non ci sono individui fondamentalisti e “banali” che non lo siano. L’atomizzazione è una scelta possibile per tutti, nella misura in cui sono formati dalle loro peggiori esperienze. Sfuggiamo a questo stato quando impieghiamo la nostra migliore forza e preparazione, non la nostra peggiore e la più crudele. Le nazioni tendono a una sanguinosa meschinità quando vengono abbandonate agli oppressi.La Germania, con il suo grande patrimonio intellettuale e artistico durante i due secoli precedenti il nazismo, la culla della riforma protestante, mostrò in epoca nazista un raro intreccio di banalità e sanguinarietà. Una delle fonti della brutalità egoistica nell’Africa occidentale all’inizio del secolo scorso è stata la formazione delle colonie, in quello che può essere considerato un precursore della brutalità nazista. La mancanza di rispetto che la Russia ha ricevuto dopo la caduta dell’Unione Sovietica sembra essere la ragione della politica spietata di Putin nei confronti di Siria, Ucraina e altri. Come gli individui, i gruppi si atomizzano quando si abbandonano all’oppressione, quindi rinunciano a pensare agli altri e a sentire per gli altri. Abbiamo una grandi esempi di tale fenomeno a più livelli: sia che ci definiamo nazioni politiche (Siria, Egitto, Libano…), oppure linguistico-culturali (arabi) o religiose (musulmani), la cui base d’appartenenza è ancora una volta concentrata sul peggio di ciò che ci ha afflitto e del quale ci lamentiamo, invece di investire nel meglio. Se l’odore del sangue è quello che sentiamo oggi nella nostra regione, e Ghassan Salameh lo ha percepito già tre decenni fa, cioè in tempi meno cruenti di oggi, allora è molto probabile che questo odore non sia separato dal progresso dell’atomizzazione individuale e collettiva .