Il percorso di una rivoluzione nel cammino di un rivoluzionario

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Di Yassin Al Haj Saleh.

Pubblicato il 18 luglio 2019, disponibile in inglese a questo link

(Traduzione di N. ElAssouad, editing di Giovanna De Luca)

Il percorso della rivoluzione siriana si riflette in modi estremamente differenti nella sorte degli individui rendendo molto difficile parlare di una “sorte esemplare” quando si parla di un rivoluzionario. Il percorso e la sorte di Abdul Baset Al Sarut ucciso, l’otto giugno 2019, all’età di ventisette anni, sembra essere il più appropriato per rappresentare in modo conciso le varie fasi del complesso conflitto siriano e le sue tragiche svolte, consentendoci anche di vedere in modo adatto le dinamiche di questo conflitto ed i suoi cambiamenti nei suoi cento mesi di durata. Ciò che attribuisce a Baset l’esemplarità è la sua fermezza, il suo scopo è la caduta del regime siriano ed il suo annientamento politico ed etico. Al Sarut soffre molto per raggiungere questo scopo fino a pagare con la propria vita.

Sarout come portiere della squadra di Homs, al Karamah

Il calciatore diciannovenne, portiere del Club Al Karamah di Homs e della nazionale giovanile siriana, si unì alla rivoluzione fin dall’inizio. In un video, raccontava di aver cominciato a cantare durante le proteste pacifiche già dai primi mesi della rivoluzione, la sua popolarità di calciatore fece sì che i giovani si radunassero intorno a lui. Così, il ragazzo di carnagione bruna, proveniente da una famiglia beduina sfollata dal Golan occupato, che guidava la sua tifoseria cantando nelle manifestazioni serali di Al-Khalidiya, cominciava ad a essere conosciuto come un ribelle in tutta la Siria. La sua fama crebbe dopo il trasferimento a Homs, quando apparve al fianco dell’attrice Fadwa Suleiman durante una manifestazione di protesta festosa nel novembre 2011, dove migliaia di giovani si erano riuniti cantando per la libertà , contro il regime. L’evento aveva un’alta carica simbolica perché l’attrice proveniente da un background alawita si opponeva al regime coscientemente e consapevolmente, dimostrando la natura trans- settaria della rivoluzione siriana.

(Fadwa Suleiman e Abdelbaset Sarout animando una manifestazione ad Homs nel dicembre 2011)

La paura che la rivoluzione fosse potuta diventare una ribellione sunnita contro l’autorità alawita fece sì che molti oppositori del regime cercassero in tutti i modi di provare il contrario, e rendere possibile l’arrivo di Fadwa a Homs era uno di questi. Fadwa credeva in una rivoluzione che superasse le differenze settarie nell’interesse generale della Siria e di tutti i gruppi della comunità, compresi gli alawiti, naturalmente.

Prima della fine del 2011, la rivoluzione siriana mostrava una componente militare che nelle manifestazioni pacifiche aveva lo scopo di difendere. Il regime iniziò una guerra contro la rivoluzione fin dall’inizio, simboleggiata dall’assalto ad un sit-in alla moschea Omari, al quale stavano partecipanti centinaia di residenti di Daraa , da parte delle forze speciali della Guardia repubblicana guidata da Maher al-Assad, che all’alba del 22 marzo 2011, uccise decine, forse centinaia di manifestanti, pochi giorni dopo quello che sarà in seguito considerato come l’inizio della rivoluzione siriana. Una forte espressione della determinazione del regime a schiacciare qualsiasi protesta contro di esso. Il suo parlare di “bande armate” che attaccano “uomini della sicurezza” e la popolazione, non è altro che un’espressione della sua determinazione ad andare in guerra.

La militarizzazione della rivoluzione non era un cambiamento astratto per Abdel Basit. Egli stesso fu bersaglio di un tentativo di assassinio da parte del regime il 14 dicembre 2011, nello stesso mese il regime uccise suo fratello maggiore Walid. Lo spostamento verso la militarizzazione è iniziato spesso a partire da storie di questo tipo.

Affrontare la rivoluzione pacifica con la violenza e l’incitamento settario aveva scatenato una dinamica di radicalizzazione e militarizzazione, in cui si confondeva una dinamica di islamizzazione e settarizazione; questo è un punto da prendere in considerazione nel percorso di Baset.

Baset era consapevole che “le manifestazioni spezzano la spina dorsale al regime”, video :

“Le nostre parole e le nostre manifestazioni sono più forti delle loro armi” diceva, e poi :”Ci ha costretto” la necessità di proteggere prima le manifestazioni pacifiche, poi i quartieri, soprattutto dopo il massacro di Khalidiya nel febbraio 2012” (vedi film: Ritorno a Homs)

Locandina del documentario Ritorno a Homs

Ma c’è un importante punto da sottolineare in questo contesto: mentre la militarizzazione della rivoluzione era una necessità generata dalla risposta violenta e discriminatoria del regime, come dimostrato nel corso degli anni post-rivoluzionari, vi era una tendenza generale a oscurare una militarizzazione non obbligatoria, facoltativa ma preferibile, da parte di gruppi salafiti che si organizzavano apertamente nell’atmosfera di violenza di massa. La “teoria rivoluzionaria” di queste formazioni non solo prevedeva l’uso delle armi, ma negava anche la linea pacifista di principio. Mentre l’armamento difensivo forzato era rappresentato dal fenomeno dell’ “esercito libero”, nato da defezioni individuali relativamente grandi nel 2011 e nel 2012, da parte delle unità e delle formazioni regolari generali dell’esercito (che si distinguono dalle unità speciali e le formazioni con funzioni di sicurezza, come la Quarta Divisione e la Guardia Repubblicana, meglio armate e più ampie, e che godono della fiducia del regime); il jihadismo emergeva da una presa d’armi facoltativa della dottrina salafita secondo la quale il pacifismo non è solo un approccio improduttivo o discutibile al conflitto, ma anche sbagliato e non islamico. La brutalità della guerra del regime aveva creato un ambiente sociale e psicologico che facilitava la non discriminazione tra queste due tendenze. Nell’esperienza di Abdul Baset, le due tendenze si mescolarono, soprattutto dopo l’assedio dei quartieri ribelli di Homs nel giugno 2012: le aree liberate erano diventate una prigione, secondo quanto detto da lui stesso. (Mi rifaccio all’articolo Il tempo di Abdul Baset ).

È importante non perdere di vista che il fatto che portare armi non significò automaticamente la fine di manifestazioni pacifiche che terminarono solo nella seconda metà del 2012, con lo spostamento verso una guerra aperta contro la rivoluzione, uno spostamento che secondo me è stato associato alla vittoria del partito iraniano che è tra gli alleati del regime. I due grandi eventi collegati all’ Iranizzazione del regime di Assad furono: l’assassinio degli ufficiali della cellula di crisi con la complicità e la conoscenza di Maher al- Assad, (l’uomo potente dell’Iran non ha partecipò alla riunione in cui i suoi colleghi della cellula di crisi furono assassinati, il 18 luglio 2012), e il ritiro dalle zone curde densamente popolate nel mese di luglio per contrastare con più efficacia la rivoluzione, in collusione con la leadership del Partito dei lavoratori curdi della Turchia, che fu chiamato a riempire il vuoto con i suoi militanti curdi,siriani e non. Il primo uso dei barili a bomba risale a luglio dello stesso anno. Le leggi antiterrorismo furono approvate all’inizio dello stesso mese. Nel totale, questi fenomeni sono indicatori cruciali del crollo del quadro nazionale del conflitto siriano e fecero sì che il conflitto siriano non fosse più siriano. Fino ad allora, le manifestazionii e l’esercito libero si completavano a vicenda, come diceva Baset. Questo cambiò dopo il crollo del quadro siriano del conflitto o la condizione di de-status della Siria. Il regime infatti diventava parte di un’alleanza regionale a guida iraniana, sostenuta in Consiglio di sicurezza con Russia e Cina.

Nella misura in cui la rivoluzione mancava di un centro di comando riconosciuto, in grado di rispondere a questa grande sfida, le dinamiche del crollo del quadro nazionale portavano modesti gruppi del FSA a stringere legami di sostegno finanziario e di armi con le potenze regionali e internazionali secondo le proprie preferenze politiche. Ma fu per lo più uno scarso sostegno, come i ribelli Homs hanno riferirono più volte (l’ho visto io stesso nella Ghouta orientale tra aprile e luglio 2013). I nostri centri di comando militare MOC e MOM, fondati dagli americani in Giordania e Turchia, promettevano sostegno all’Esercito Libero ma avevano il compito di controllare e spiare i combattenti contro il regime. Questa è una pagina nera che non ancora è stata raccontata.

Homs assediata e bombardata

Dopo mesi di assedio e la perdita di molti dei suoi compagni, tra cui i suoi fratelli e lo zio nella tragica battaglia dei mulini in cui gli intrappolati cercarono di ottenere qualcosa che li salvasse dalla fame, Abdul Basit riuscì ad uscire verso la campagna di Homs, con l’intento di rompere l’assedio dall’esterno. Passarono mesi ma il suo piano non funzionò. Nel luglio 2013, il 21enne tornò a vivere tra gli intrappolati. Questo fu un atto eroico, coraggioso ed etico. Al ritorno all’assedio Baset fu gravemente ferito, lo possiamo vedere nel film “Return to Homs”, ancora sotto l’influenza dell’anestesia urlando “Uccidetemi, ma rompete l’assedio”! Per circa dieci mesi, Baset visse nei quartieri assediati di Homs, condividendo con le famiglie e i combattenti la vera fame. L’assedio fino alla morte per fame è una strategia militare adottata dal regime, ne conosciamo altri esempi: Yarmouk, Madaya, Zabadani e la Ghouta orientale, e il suo noto slogan è: inginocchiarsi o morire di fame.

A Homs, durante l’assedio

In un video pubblicato dopo l’evacuazione dei quartieri assediati di Homs e la partenza di famiglie e combattenti negli autobus verdi nel maggio 2014, Baset parlava molto del principio di “preservare la grazia”. “Buttavamo via i nostri pasti, uno spreco imperdonabile per coloro che vivono affamati, senza renderci conto di quale fortuna avessimo.”, dice. Baset dava proporzioni sacre all’esperienza della fame attraverso il principio islamico di preservare la grazia, le origini di questo pensiero risalgono ad un hadith profetico. Gli stessi combattimenti per difendere le manifestazioni pacifiche, e poi i quartieri ribelli, diventavano, secondo Baset, giustificati dalla jihad, ” imposta da Dio”.

Alla fine di “Return to Homs”, lo vediamo nel mezzo di un gruppo di suoi compagni nel bagagliaio di un’auto che canta un inno jihadista. Qui troviamo il culmine della dinamica del radicamento, della militarizzazione e dell’islamismo lanciata dalla profanazione degli ambienti della rivoluzione siriana. Ma la biografia particolare di Baset serve come base per distinguere tra due versioni del complesso militarismo- islamismo, cioè la jihad: una prima versione strettamente legata a tale dinamica, cioè al jihadismo interno di origine sociale, essenzialmente difensiva anche quando sembra essere tatticamente offensiva, strettamente legata alle operazioni di conflitto e ai duri percorsi di assedio, fame e convivenza con morte, la perdita di persone care e amici, e quindi di difesa della società; e una versione di élite esterna, lontana dagli ambienti sociali più vivi, come se la distruzione di questi fosse la condizione per la propria crescita . Non è una versione sociale, ma al contrario, si rispecchia in un contesto di narcisismo ed elitismo. Il 2013 è stato un anno di miscelazione o non distinzione tra i due tipi di jihad, la difensiva compulsiva di origine sub-sociale e quella offensiva facoltativa di fascia superiore, mobile e globalizzata. Quest’ultima ha drammaticamente abusato della lotta dei siriani, compresa la resistenza sociale, fornendo durante il processo di conflitto un sostegno di carattere religioso, come nel caso di Baset e dei suoi compagni. Queste due forme di rivoluzione e nichilismo raramente si sono distinte. Rare volte Baset le distinse, e lo vediamo in un video prima dell’uscita rivolgendosi ad Al- Baghdadi, Al-Joulani e Al-Zhawahiri, apparentemente considerandoli rappresentanti dei modelli più radicali dell’opposizione all’ingiustizia in Siria e nel mondo.

Al momento dell’ultima uscita da Homs, Baset si diresse verso un “patto di fedeltà all’ISIS”, confondendo molti che tendono a negare il fatto. Personalmente non vedo necessità di farlo. Baset stesso non solo non lo rinnegò, quando glielo si chiedeva sinceramente risponde: Non c’è fumo senza fuoco… ”

Stavo cercando lavoro” spiegava “non ho più una soluzione dopo l’assedio se non il lavoro”, “lo stato (ISIS) è nella campagna settentrionale”. È chiaro nella registrazione che lavorare significa combattere il regime. Se il patto di fedeltà non venne firmato, molto probabilmente fu perché lui era fermo nel voler combattere il nemico che aveva causato la sofferenza degli abitanti di Homs discriminandolo, aggredendolo e assediandolo. Baset non vuole impegnarsi in un progetto inesistente di conflitti più brutali e né gestores situazioni che avevano a che fare con la barbarie . La Siria era solo una cornice nel conflitto dell’ISIS e di Jabhat al-Nusra, mentre Baset aveva sempre parlato di una patria, di un regime criminale, di una lotta armata (a volte anche di jihad) e sempre di Homs “al-Adiya”. “Hanno commesso molti abusi, ne sono uscito”, dice, riferendosi all’ISIS e ad Al-Nusra. Baset fondò un battaglione di lotta armato, il Battaglione dei Martiri di Al-Bayda, composto da ex manifestanti. Ad Al-Nusra , che lo aveva arrestato e tenuto in isolamento per 37 giorni disse: “Io non combatto lo “Stato” né combatto voi, io combatterò il regime fino all’ultima goccia di sangue.

Abdel Badet Sarout in una delle Sue ultime apparizioni in pubblico ad una manifestazione

L’ultima goccia di sangue versata l’8 giugno, nel contesto di una “lotta armata” contro il regime trasformatosi in un protettorato iraniano-russo.

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A livello di pianificazione, quattro fasi possono essere distinte nel percorso di Al Sarut. La fase delle manifestazioni pacifiche fino all’autunno del 2011, il palcoscenico del combattente che continua nella protesta pacifica fino al giugno 2012, il palcoscenico del combattente sotto assedio, che sviluppa un discorso islamico e jihadista, soprattutto dopo il ritorno all’assedio nell’estate del 2013, al punto di fare un patto di fedeltà con ISIS, per poi tornare come combattente contro l’occupante locale e i suoi protettori dopo una pausa trascorsa in Turchia, e questo fino al suo martirio quaranta giorni fa.

Si tratta delle tappe del conflitto siriano stesso. Una rivoluzione pacifica all’inizio, poi pacifica e armata o quella che si può chiamare la guerra civile siriana (combattimento siriano-siriano), poi il crollo del quadro nazionale e l’iranizzazione politica del regime, l’islamizzazione e la sunnizazione dei combattenti contro di essa, e infine la dispersione dei combattenti e la continuazione dei più fedeli nella lotta per la Siria.

Nel percorso del rivoluzionario Baset ci sono due uscite: quella dall’assedio e quella dal paese, e due ritorni: all’assedio e ai combattimenti, prima dell’eroica uscita finale, da una vita epica, nonostante la sua estrema brevità.

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