Identità come narrazione: racconto e autocostruzione dopo la Primavera Araba

Di Wendy Pearman

Nel decimo anniversario delle rivoluzioni arabe, Wendy Pearlman discute la teoria dell’identità narrativa come un atto continuo di creazione di significato e definizione di sé, ritenendo le soggettività emergenti un’eredità consequenziale delle rivoluzioni arabe.

[Nota dell’editore: questo articolo è l’ottavo di una serie pubblicata in collaborazione con Mada Masr in occasione del decimo anniversario della rivoluzione egiziana. È disponibile anche in arabo.]

Pubblicato in inglese il 10 febbraio 2021 su Al-Jumhuriya

(Traduzione di Giovanna De Luca)

Cosa significa la Primavera Araba per chi l’ha vissuta? Dieci anni non sono sufficienti per trarre conclusioni su questo processo ancora in corso. Un modo per affrontarlo, tuttavia, è attraverso ciò che gli psicologi che investigano chiamano “identità narrativa”. Secondo la teoria dell’identità narrativa le persone diventano ciò che sono quando si trovano nelle storie. In quest’ottica, le narrazioni personali sulle rivolte arabe sono atti non semplicemente di ricordo, ma anche di auto-definizione dinamica. È attraverso tale narrazione che le persone rispondono attivamente e continuamente alla domanda: “Chi sono io?”

Concettualizzare l’identità attraverso una narrazione offre un’utile alternativa alle tendenze convenzionali di equiparare l’identità all’appartenenza a un gruppo sociale, o con caratteristiche come l’etnia, la religione o la nazione. Al contrario, un approccio narrativo tratta l’identità come un processo in continua evoluzione. Per citare la psicologa Monisha Pasupathi, “l’identità non è qualcosa che le persone costruiscono e poi possiedono, ma piuttosto […] è una questione che deve essere trattata in modo continuo durante tutta la vita degli individui”. Il focus sulla narrazione sfida anche coloro i quali sostengono che lo scopo principale dell’identità è il bisogno degli umani di separare se stessi e gli altri in gruppi interni di amici e gruppi esterni di nemici. Comprendere l’identità come la storia in evoluzione che le persone raccontano di sé stesse insiste invece sul fatto che la funzione principale dell’identità sia la creazione di significato.

Per illustrare l’utilità di questo approccio, attingerò al mio progetto di interviste realizzate a centinaia di rifugiati e migranti siriani in tutto il mondo. Brevi estratti di tre interviste affrontano tre principali tipi di esperienza che milioni di siriani hanno attraversato dal 2011. Ogni esempio offre uno sguardo su come il proprio pensiero sul proprio passato contribuisca a costruire chi si è nel presente, e quindi indica come ricordare la primavera araba rimanga una parte dinamica della formazione dell’identità, dieci anni dopo.La prima esperienza è stata la protesta. Qui, Sara ricorda di aver deciso di partecipare a una manifestazione per la prima volta:

Mi sono fermata sull’uscio di casa e mi sono chiesta: “Sei pronta ad affrontarne le conseguenze o no?” […] Ti metti dalla parte della tua gente. Ti difendi, perché fai parte di quelle persone […] Prima di allora, ti sentivi a pezzi. Dicevi sempre: “Sì”. Questa è stata la prima volta che hai detto “No.” […] Quella prima manifestazione è stato l’evento più bello della mia vita. È stato come il giorno in cui sono nata […]

La cosa più importante in questa fase è proteggere l’ultima speranza che le persone hanno lasciato […] e ripristinare la fiducia in noi stessi. Fiducia nel fatto che possiamo ancora dire “No” e che, a un certo punto, ci riusciremo.”

Manifestazione ad Aleppo. (Foto di Syria.ABDALRHMAN ISMAIL / REUTERS)

Nel racconto di Sara, il dissenso è così fondamentale per il proprio senso di sé post-2011 che la sua prima manifestazione è stata simile alla rinascita. L’essenza della sua nuova identità è la sua capacità di rifiutare un sistema brutale e corrotto. Gli ultimi dieci anni hanno minato il suo ottimismo nelle prospettive di sconfiggere quel sistema. Finché mantiene la capacità di dire “no”, tuttavia, rimane la persona che è nata durante la Primavera araba.

La seconda esperienza è la repressione. Qui, Alaa riflette sulla sua breve prigionia nelle carceri del regime siriano:

Il secondo o il terzo giorno, mi sono guardato intorno nella cella e ho pensato […] queste persone hanno trovato una sorta di significato nel cavarsela quotidianamente. Questa è stata la spiegazione a cui sono arrivato dopo averci pensato per anni. C’è un significato più profondo che trovi nella sofferenza.

Di solito non parlo della prigione. Ma sono arrivato a un punto in cui devo farlo. Mi rendo conto di avere molte convinzioni e idee derivanti da quella brevissima esperienza […]

Ora sono in un posto in cui sono felice nella mia vita. Ma non credo che lo scopo della vita sia perseguire la felicità. È perseguire un significato. C’è un significato nella famiglia. C’è un significato nell’amore. Personalmente trovo che la responsabilità sia molto significativa. Che sia nella mia carriera o anche solo parlando con un amico che sta attraversando un momento difficile.”

Amnesty International

Per Alaa, aver subito la violenza di stato durante la Primavera Araba è stato un punto di svolta nel suo risveglio verso un nuovo senso di percepire lo scopo. Lo stesso processo di narrazione di quell’esperienza lo aiuta a comprenderla in modi nuovi. Quella comprensione, a sua volta, è parte integrante di chi è e di ciò che fa, nelle grandi e piccole cose.

La terza esperienza è lo spostamento. Medea considera che l’impronta del 2011 sia presente nel modo in cui stia vivendo l’esilio:

Sono diventata quella che sono grazie alla rivoluzione. Mi ha reso un essere umano migliore. Prima ero un pò conservatrice. Interessata solo alle piccole cose. Limitata. Omofoba. Se non ci fosse stata questa rivoluzione, sarei stata una casalinga di Homs, e avrei cresciuto mia figlia insegnandole a prendersi cura della sua bellezza e a trovare un marito ricco.

Ora, quando mia figlia chiede la mia opinione, le dico: sei libera. Cerco di insegnare a mia figlia: non giudicare mai. Soprattutto a Berlino. A Berlino puoi essere te stesso […] Mi sono sentita a casa due volte nella mia vita. A Homs, quando è iniziata la rivoluzione. E qui a Berlino.

Medea apprezza Berlino non perché in qualche modo l’abbia liberata, contrariamente a quanto potrebbero credere alcuni europei o nordamericani. Piuttosto, Berlino offre uno spazio in cui può incarnare la stessa libertà e autenticità che ha scoperto durante la rivoluzione siriana. La Primavera Araba ha contribuito a renderla la persona che è, e continua a vivere nella persona che sta crescendo sua figlia.

Ritratto di bambina siriana di Judy Arvidson

Queste sono solo tre istantanee tra gli innumerevoli esempi immaginabili in cui le persone trasformate dalla Primavera araba danno voce alle loro esperienze. Accennano a come le rivoluzioni continuano a incresparsi non solo attraverso i macro-processi di rimodellazione della politica in Medio Oriente, ma anche nella micro-politica degli individui che si fanno strada nel mondo. Suggeriscono anche che raccontare la propria storia non è meno importante del formare la propria identità e insistere sul diritto di farlo. E questa rimane una delle più grandi eredità del 2011, dieci anni dopo.

(Wendy Pearlman è autrice del libro “We Crossed a Bridge and It Trembled: Voices from Syria” pubblicato nel 2017)

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