Pubblicato su Aljumhuriya il 2 Luglio 2021.
Di Hammoudi
(Traduzione Giovanna De Luca)
Un siriano queer di 34 anni parla per la prima volta della sua prigionia sia sotto il regime di Assad che sotto l’ISIS; esperienze che lo hanno quasi ucciso, come è accaduto a molti dei suoi amici.
[Nota dell’editore: il testo che segue è stato compilato da un’intervista con un attivista siriano identificato come Hammoudi, condotta da The Syria Campaign in occasione del Pride Month. È disponibile anche in arabo.]
Quando è iniziata la rivoluzione siriana nel 2011, stavo studiando architettura nella città di Raqqa, nel nord-est della Siria. Sono stato arrestato per la prima volta dal regime di Bashar al-Assad dopo aver preso parte alle manifestazioni lì, ma in quell’occasione sono stato rilasciato dopo dieci giorni. La seconda volta che sono stato arrestato, a un posto di blocco vicino a Raqqa nel giugno 2012, è stato molto più difficile. Avevo continuato il mio attivismo e stavo sostenendo i civili sfollati che erano fuggiti dalla brutalità del regime. Il fatto di essere queer ha solo aumentato il rischio per la mia vita, perché essere gay è illegale secondo la legge siriana.
In prigione, non dimenticherò mai una guardia di nome Abu Jasem che coglieva ogni opportunità possibile per torturare noi detenuti. Gli altri detenuti erano omofobici, quindi ho sofferto per mano sia dei miei carcerieri che dei miei compagni di cella. Un giorno sono stato picchiato nove volte. Sento ancora vividamente la vergogna e l’umiliazione. I miei compagni di cella si rifiutavano di dormire accanto a me nella nostra minuscola cella, guardandomi con disgusto. Queste esperienze mi hanno lasciato un dolore emotivo continuo e distruttivo.
Sono stato trasferito in un altro centro di detenzione a Deir al-Zor, dove ho incontrato un compagno di cella che è stato gentile con me e mi ha trattato bene. Un giorno, attraverso la finestra della mia cella, ho dovuto sopportare la vista di lui che veniva torturato. Il giorno dopo, la tortura lo ha ucciso. Non dimenticherò mai quello che successe dopo. Le guardie portarono il cadavere del mio amico nella mia piccola cella e lo lasciarono lì con me per due giorni interi. A volte credo di non essere stato io a giacere lì con il cadavere di un giovane per due giorni.
Sono stato rilasciato dopo due mesi e dieci giorni. Sono sopravvissuto fisicamente, ma l’esperienza mi perseguita. Siamo stati torturati per aver parlato di un futuro migliore per il nostro paese, e nessuno di noi potrà mai dimenticarlo.
Alla fine del 2012, dopo il mio rilascio, sono tornato nella mia città natale, Raqqa, che stava godendo di un breve periodo di nuove libertà dopo che l’esercito del regime si era ritirato dalla zona. Avevo iniziato a lavorare con la comunità locale. Eravamo appassionati e pieni di energia nell’organizzare una società migliore. All’inizio del 2013, abbiamo fondato un’organizzazione della società civile locale chiamata “Our Right”, che promuoveva la democrazia e metodi alternativi di governance locale, come le elezioni e la giustizia sociale. Sembrava un sogno che diventava realtà.
Dopo un po’, tuttavia, iniziammo a sentire di combattenti stranieri che entravano nel paese. All’inizio non ci credevo, ma in effetti erano gli stessi combattenti stranieri che in seguito si sono uniti allo Stato Islamico (ISIS) e ad altri gruppi jihadisti, come Jabhat al-Nusra. Nel giugno 2013, un’auto è entrata in una delle famose piazze di Raqqa, annunciando che l’ISIS era al comando e Abu Bakr al-Baghdadi era il suo leader. Avevo molta paura. Avevamo appena iniziato a sperimentare la libertà dal regime di Assad e un altro oppressore si stava già affermando.
L’ISIS ha osservato il lavoro della nostra organizzazione fin dall’inizio, ma abbiamo comunque continuato a lavorare. Sapevamo che stavamo correndo un rischio enorme, ma lo avevamo già fatto contro il regime e dovevamo proteggere la nostra comunità dall’essere conquistata dall’ISIS. Lanciammo una campagna chiamata “Piazze della Libertà, e non” Piazza delle Esecuzioni” e un’altra contro il reclutamento di bambini soldato da parte dell’ISIS.
Un giorno, un membro dell’ISIS arrestò me e il mio amico Abd al-Ilah al-Hussein. Ci interrogarono e ci chiesero le password dei nostri account sui social media. Abd al-Ilah non era solo un amico, era come una persona di famiglia per me. Aveva sei anni in meno, ma sono sempre stato ispirato dal suo coraggio, dalla sua gentilezza e dalla sua convinzione nel cambiamento. Studiava legge ed era stato arrestato sette volte dal regime per il suo attivismo non violento.
L’ISIS ha torturato Abd al-Ilah a causa dei suoi post contro di loro su Facebook. Ero in un’altra stanza, ma ancora una volta sono stato costretto a sentire un caro amico che veniva torturato. Ricordo ancora la sua voce quel giorno nella mia testa. Poi arrivò il mio turno. I membri dell’ISIS dissero che non gli importava nulla di ciò che avevo fatto con l’ONG; mi avevano portato lì perché ero gay. Mi dissero che non meritavo di vivere.
Non c’era differenza tra ISIS e il regime nel modo in cui trattavano i cittadini LGBTQ+. Un gran numero di attivisti queer non sopravvisse a quegli anni. O furono giustiziati o scomparvero. Ad oggi, non abbiamo ancora alcuna conoscenza di dove si trovino.
Aspettavo la mia morte, immaginando come sarebbe andata a finire. Ma, sorprendentemente, sono sopravvissuto. Ci trattennero in un appartamento residenziale, poiché era comune per l’ISIS utilizzare edifici privati come centri di detenzione. Un giorno ci furono scontri nella zona e i membri dell’ISIS dovettero fuggire improvvisamente dall’edificio. Scappai ed questo l’unico motivo per cui sto raccontando la mia storia oggi. Quanto al mio amico Abd al-Ilah, non l’ho più visto da allora. Volevo restare a Raqqa per cercare di ricavare ogni possibile informazione su di lui, ma dopo sei mesi fui costretto ad andarmene. Vivevo sotto copertura e sembrava che il governo dell’Isis non dovesse finire a breve. I miei amici e la mia famiglia mi imploravano di andarmene. La sensazione di averlo lasciato indietro è stata la cosa più difficile.
Oggi ho 34 anni e vivo a Berlino. Questa è la prima volta che racconto la mia storia. Non è solo la mia storia, ma anche la storia di migliaia di siriani LGBTQI+ che non hanno il privilegio di fare coming out, di esprimere il loro dolore e di raccontare le loro storie. Molti di noi sono lasciati senza risposte su dove sono i nostri amici, la famiglia e i nostri cari detenuti e scomparsi, e cosa è successo loro. La comunità internazionale deve assumersi le proprie responsabilità e sostenerci nella ricerca di queste risposte.
Il mese scorso, il mondo ha celebrato l’orgoglio, eppure molti siriani vivono ancora nella paura dell’oppressione da parte delle varie parti in conflitto, nonché dalle nostre stesse comunità. Il Pride Month dovrebbe essere un momento non solo per riflettere su ciò che è stato ottenuto riguardo ai diritti LGBTQI+, ma anche per ricordare quelli di noi che hanno sofferto, che sono scomparsi e persino uccisi semplicemente a causa del nostro orientamento sessuale.