La Siria prima della tempesta: un dissidente ricorda la vita nell’era pre-Assad

Testo autobiografico scritto da Yassin al Haj Saleh.

Pubblicato in arabo su Aljumhuriya il 27 settembre 2017 e in inglese tradotto da Alex Rowell su New Lines Mag il 10 marzo 2023.

(Traduzione G.De Luca)

Nella foto Yassin al Haj Saleh

In questo saggio profondamente autobiografico, un importante intellettuale siriano racconta i suoi primi anni nelle zone rurali del paese, lamentando la vitalità politica e culturale da allora persa in una società distrutta dalla tirannia e dalla guerra.

Mio padre, Ibrahim al-Haj Saleh, era un uomo di fede. Da bambino aveva frequentato una scuola elementare islamica tradizionale, nota come “kuttab”, dove aveva imparato a leggere e scrivere. L’ho visto pregare e digiunare durante il mese sacro del Ramadan per tutta la sua vita.

Anche mia madre, Ajaja al-Husayn, che non era istruita, digiunava ogni Ramadan e pregava occasionalmente. Morì nel 1990, mentre tre dei suoi figli erano in prigione. Mio padre, che in seguito si è risposato, ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca verso la metà degli anni ’90. Eppure, fino al giorno in cui è morto ottuagenario nel 2011, è rimasto lo stesso uomo che avevo conosciuto fin dalla prima infanzia, quando aveva circa 30 anni: sempre ben rasato tranne per i baffi leggeri, moderato nel comportamento e nella religiosità, detestava rimanere a lungo fuori casa. (I miei fratelli affermano che ho ereditato quest’ultima caratteristica da lui.)

È stato per mano di mio padre che ho memorizzato il versetto iniziale del Corano, noto come “al-Fatiha”, quando avevo circa 5 anni. Ricordo che ero solito saltare erroneamente direttamente da “Nel nome di Dio, il più compassionevole, il più misericordioso” a “Maestro del giorno del giudizio”, a causa della ripetizione di “il più compassionevole, il più misericordioso” nel terzo verso di questo breve testo.

Vivevamo in un piccolo villaggio nelle zone rurali della Siria settentrionale conosciuto in vari modi come al-Jurn, al-Jurn al-Aswad, al-Jurn al-Aswad al-Tahtani e Jurn al-Haj Saleh. La prima scuola venne aperta nel 1962, il che fu stato una fortuna per mio fratello Saleh (nato nel 1957), che, a differenza dei nostri fratelli maggiori Muhammad (nato nel 1953) e Mustafa (nato nel 1955), non ha dovuto frequentare un’altra scuola a diverse miglia di distanza, percorrendo strade sterrate che si trasformavano in valli fangose ​​nella stagione delle piogge.

In foto: il villaggio di al-Jurn nel nord della Siria, oggi. (Yassin al Haj Saleh)

Sono nato nel 1961. La tradizione di famiglia vuole che io abbia iniziato la scuola nella seconda metà dell’anno accademico 1965-66 ed ero il primo della mia classe. Non ricordo nulla di tutto ciò, anche se ho ricordi di tempi anteriori. A scuola, dove c’era un solo insegnante a tempo pieno per tutte e sei le classi, abbiamo acquisito aspetti delle convinzioni e delle idee di altri insegnanti che sono venuti da altre parti della Siria nella nostra regione “sottosviluppata dal punto di vista educativo”. C’era un insegnante di persuasione apparentemente islamista da cui ho imparato la famosa poesia e canzone, “O Imam dei profeti, il mio sostegno”, così come un altro verso del grande poeta e pensatore musulmano dell’Asia meridionale, Muhammad Iqbal, che diceva : “La Cina è nostra e gli arabi sono nostri / L’India è nostra, tutto è nostro!” Di un insegnante baathista, ricordo ancora due righe di doggerel da lui stesso composte, celebrando il colpo di stato militare compiuto 60 anni fa quella stessa settimana: “L’8 marzo (1963) / La luce brillò e il fuoco si spense / Il Baath portò la sua rivoluzione / Spezzando le catene del colonialismo.

I miei ricordi più felici dell’infanzia nel villaggio erano quelli legati al compleanno del Profeta Maometto, che chiamavamo “al-Mawlud”, celebrato ogni anno nel grande spazio per l’accoglienza degli ospiti noto nel dialetto locale come “mathafa”, o “utha ” (dal turco “oda”, che significa “stanza”). Sebbene quest’area fosse di proprietà del fratello maggiore di mio nonno, Humaidi al-Haj Saleh, e poi lasciata in eredità alla sua morte al figlio maggiore, Mustafa, era uno spazio pubblico per i residenti del villaggio e i loro ospiti. Tra le sue caratteristiche memorabili c’era un vaso di terracotta riempito ogni giorno con acqua potabile, situato in una piccola area speciale. Quando le gocce d’acqua filtravano dall’argilla, creavano un flusso che aiutava a raffreddare l’acqua servita agli ospiti. Il barattolo aveva il recipiente in argento, inciso con disegni e scritte, che furono successivamente deformate quando un trattore ci passó sopra accidentalmente nei primi anni ’70.

Fu in questo stesso spazio che gli abitanti di al-Jurn e dei villaggi circostanti udirono la notizia della guerra contro Israele nel giugno 1967, attraverso l’apparecchio radiofonico di mio zio Mustafa. Ad un certo punto, divenni uno dei messaggeri inviati a casa nostra, dove si erano radunate le donne del villaggio, per riferire che finora avevamo abbattuto questo o quel numero di aerei nemici.

Del fratello di mio nonno Humaidi, che morì in quel periodo, ricordo che era solito sedersi sul pavimento del mathafa su un tappeto fatto di pezze di vecchi vestiti, o una coperta di lana di pecora pressata, con un grande Corano davanti a lui appoggiato su di un supporto speciale che chiamavamo “kursi”, da cui leggeva mentre dondolava il corpo avanti e indietro.

Quanto a mio nonno, Abdallah, era un uomo particolare, diverso da tutti gli altri. Ben istruito, possedeva libri antichi, di cui ricordo “The Unique Necklace” dello studioso del X secolo Ibn Abd Rabbih. Era il capo del villaggio o “mukhtar” (letteralmente “il prescelto”, titolo ufficiale risalente all’era ottomana) nonché autorità religiosa (“mufti”). Raramente si mescolava con gli altri, aveva preso l’abitudine di isolarsi completamente per diversi giorni almeno una volta all’anno, rinchiudendosi da solo in una stanza senza parlare con nessuno, ricevendo il cibo fuori dalla porta della stanza. Questa pia pratica è conosciuta come “khalwa” (isolamento).

Abdallah si sposó tre volte, anche se non ha mai avuto più di una moglie alla volta. Sospetto che non sia mai stato un padre di famiglia e potrebbe anche aver odiato le donne. Se passava davanti a un gruppo di donne che piangevano in lutto, le malediceva in arabo classico: “Dio ti maledica!” Non ricordo che sia entrato una volta in casa nostra, né in quella di mio zio Muhammad, il figlio più giovane della sua prima moglie, morta prematuramente. Il suo rapporto con mio padre, suo figlio maggiore, era ancora freddo al momento del mio arresto nel 1980, quando aveva circa 75 anni e mio padre 52. L’unica volta che ho sentito calore da lui è stato quando ho visitato il villaggio intorno al 1979 e ha saputo che stavo studiando all’Università di Aleppo. Purtroppo, è morto solo pochi mesi prima del mio rilascio dalla prigione alla fine del 1996.

Nonostante tutte le sue stranezze personali, mio ​​nonno – il cui soprannome era “lo studioso” – potrebbe essere stato in parte responsabile di aver dato ad al-Jurn la sua reputazione locale per l’apprendimento, che, nel contesto, significava conoscenza della lettura e della scrittura e come condurre le preghiere e altre cerimonie durante le feste dell’Eid e l’ospitalità di Mawlud. La gente veniva ad al-Jurn dai villaggi circostanti per ascoltare le notizie e discutere dei propri affari. Era anche visitato da viaggiatori provenienti da più lontano, che a volte passavano la notte, dormendo nel mathafa.

A Mawlud, il mathafa si riempiva di dozzine di uomini, alcuni dei quali portavano tamburelli, che di tanto in tanto riscaldavano su un fuoco acceso all’esterno dello spazio per questo scopo. Mio padre batteva una mano sul dorso dell’altra al ritmo dei tamburelli, aggiungendo la sua voce a un coro che recitava: “O meccano, o meccano, la lode per Maometto mi è cara”. Mi piaceva ascoltare questo incantesimo ritmico, che è l’unico che ora ricordo. Tra i canti in prosa, ricordo “l’Essenza maomettana”, che arrivava verso la fine della cerimonia. Un giovane serpeggiava attraverso il mathafa portando uno speciale contenitore che emetteva fumo di incenso. Man mano che i vapori si mescolavano al canto, che diventava più forte man mano che le voci e i tamburelli degli uomini diventavano più animati, e le donne urlavano nei momenti di particolare estasi, un’estasi trascendentale avrebbe sopraffatto alcuni degli uomini più giovani. In piedi al centro della scena, si contorcevano e schiumavano alla bocca prima di cadere a terra. A quel punto, lo sceicco Ibrahim – un religioso sufi con un turbante verde, del vicino villaggio di al-Tayba – pronunciava alcune parole nelle orecchie degli uomini caduti e posava la sua spada su di loro, quindi li copriva con un involucro o una pelle di lana d’agnello fino a quando non si fossero ripresi, pochi minuti dopo.

Era uno spettacolo di massima emozione per noi bambini. Normalmente sedevo vicino a mio padre tra gli uomini, godendomi tutto profondamente. Altre volte, sgattaiolavo via per giocare con i cugini della mia età. Le donne sedevano vicino all’ingresso, seguendo le attività senza parteciparvi direttamente, se non per gli ululati, riservati alle mamme più anziane. All’ingresso stesso c’erano grandi pentole piene di una bevanda così deliziosa che non ne avrei mai avuto abbastanza. Pensato fosse quello, che bevevano in paradiso. Non è stato senza delusione che in seguito ho appreso che non era altro che acqua addolcita con lo zucchero, più un pizzico del “sale al limone” che usavamo sul cibo prima che il frutto del limone fosse disponibile e un po’ di acqua di fiori d’arancio.

Un’altra parte eccitante delle serate Mawlud era la cosiddetta lanterna lux che veniva utilizzata solo in occasioni speciali, come i matrimoni. Le nostre solite fonti di illuminazione erano le lanterne a cherosene, che emettevano solo un fioco bagliore. Il lux era molto più luminoso e funzionava con alcol denaturato piuttosto che con semplice cherosene. Questo prezioso alcol blu potrebbe essere versato sui nostri palmi e acceso con un accendino per sprigionare una fiamma blu senza fumo. Ancora più importante per noi era che il lux allungasse le nostre ombre. Mi piaceva vedere la mia ombra estendersi lontano. A differenza delle lampade a cherosene, il lux attirava anche le falene, che cadevano morte quando ne toccavano la base. La lampada a cherosene non avrebbe mai ricevuto l’onore di un simile sacrificio.

Il secondo spazio pubblico del villaggio, oltre al mathafa, era l’adiacente cimitero, le cui tombe erano sparse su una collina. I miei ricordi d’infanzia di questo cimitero sono più allegri che tristi. Nelle mattine delle festività di Eid al-Fitr e Eid al-Adha, noi bambini andavamo presto al cimitero e strappavamo i pezzi di caramelle deposti dalle donne sulle tombe dei propri cari. A volte ci veniva chiesto di leggere al-Fatiha o altri versetti coranici per le anime dei morti, cosa che facevo con il piacere di uno studente diligente che sapeva che stava arrivando una ricompensa. Oltre alle caramelle, avremmo anche potuto ricevere un franco o due, per comprare più caramelle nell’unico negozio di alimentari del villaggio, di proprietà di mio zio Muhammad. Non c’era nient’altro da comprare per un bambino della mia età se non caramelle, semi di girasole o semi di zucca.

In foto: il cimitero di al-Jurn oggi. (Yassin al Haj Saleh)

Al momento dell’Eid, dozzine di uomini si riunivano nel mathafa e ripetevano i consueti canti con vigore: “Dio è il più grande, Dio è il più grande, Dio è il più grande, sia lode a Dio, Dio è davvero il più grande, massima lode a Dio, gloria a Dio giorno e notte!” Nel frattempo, noi bambini correvamo dal cimitero al mathafa e aspettavamo con impazienza che i riti religiosi finissero per poter mangiare un pezzo o due di carne, la nostra parte del sacrificio dell’Eid. Questa carne la strappavamo a mani nude da un piatto riservato ai bambini, con la carne ed i suoi sughi serviti su filoni di focaccia “saj” appena sfornati. Ancora oggi sostengo che questo sia il miglior pane del mondo. Il migliore di tutti era il pane “malawih” che mia madre cuoceva ogni mattina sulla piastra convessa saj di metallo nero nella nostra cucina, lasciando il pane “rgag” ai fornai meno esperti. Evitando l’attrezzatura speciale usata per il pane rgag, mia madre impastava l’impasto del malawih con le mani finché non diventava abbastanza sottile e largo da coprire quasi interamente la piastra.

Mentre molti associano l’ Eid è associato a vestiti nuovi, non lo ricordo nel mio caso. La nostra famiglia stava diventando sempre più povera in quel momento e vestiti nuovi non erano cose che ci saremmo mai aspettati. Tuttavia, le caramelle, i giochi e l’allegria di tutti mentre si scambiavano gli auguri di Eid portavano gioia nel mio cuore. Un visitatore avrebbe detto: “Un benedetto Eid a te!” E mia madre rispondeva: “Un benedetto Eid per entrambi!” Poi gli adulti si sedevano sui tappetini sull’erba davanti alla casa e bevevano il tè. Nei miei ricordi la stagione era sempre la primavera.

Ad un certo punto ogni anno, prima di Eid al-Fitr, mio ​​padre donava una parte del grano coltivato nella nostra terra ai piú bisognosi tra i miei zii. Questo era il suo atto di “zakat”, o elemosina, obbligatorio per ogni musulmano. Donava anche dal nostro gregge di pecore, il cui numero era sceso da dozzine a meno di 10 alla fine degli anni ’60? Non lo so.

Un’estate, credo nel 1968, ho imparato parte del Corano in una scuola kuttab gestita da mio fratello Muhammad, che aveva otto anni più di me, sotto la supervisione di nostro padre. Ho memorizzato la maggior parte dei brevi capitoli della sezione finale del libro. L’estate successiva frequentai un altro kuttab nel vicino villaggio di al-Faris, gestito da un altro parente. Qui, agli studenti veniva insegnato a leggere, scrivere, aritmetica, dettatura e come sillabare le parole dei capitoli più brevi del Corano.

Ho iniziato a digiunare durante il Ramadan mentre ero in terza elementare, che credo fosse anche nel 1968. Il primo giorno, ho avuto fame dopo poche ore e ho interrotto il digiuno molto prima della scadenza obbligatoria del tramonto. Sono riuscito a digiunare tutto il giorno per più di una settimana dopo, ma ho interrotto il digiuno di nuovo presto dopo aver avuto fame il nono giorno. Tuttavia, i miei sforzi hanno guadagnato l’approvazione dei miei genitori, che sono stati contenti di vedermi unire agli adulti nel digiuno in così giovane età. Ricordo ancora che mi premiarono con una coscia di tacchino da mangiare una sera durante il Ramadan. A quei tempi, era davvero raro mangiare carne: succedeva solo poche volte all’anno. Mia madre resisteva sempre alle richieste del figlio brontolone di macellare uno dei suoi pochi polli perché voleva mangiarlo. Doveva rendere conto di sette figli, poi otto, oltre a lui. Ma ogni volta che sacrificava un pollo, mi offriva un panino particolarmente appetitoso. (Con ogni probabilità, ha fatto sentire a ciascuno dei suoi figli di essere scelto in questo modo.)

Mia madre ha lavorato tutto il giorno per prendersi cura della sua famiglia in crescita. Cuoceva e cucinava ogni giorno. Mungeva le nostre pecore e agitava il latte, estraendo il burro prima che si sciogliesse per trasformarlo in grasso da cucina. Raccoglievs legna da ardere. Nella stagione del cotone, raccoglieva cotone per un misero salario. Nel frattempo, avrebbe partorito e cresciuto altri figli. La ricordo incinta dei miei due fratelli minori, Khalil e Firas. Mio padre non faceva i lavori domestici di per sé, anche se ci tagliava i capelli e le unghie e si occupava dei terreni agricoli. Fino al 1968 circa, se ricordo bene, assunse un ragazzo per pascolare le nostre pecore in cambio di un agnello al mese. In seguito, io e mio fratello Saleh pascolammo il numero sempre minore di capre e pecore. Mia madre ottenne un certo sollievo quando si trasferì con i suoi figli più piccoli nella città di Raqqa nell’autunno del 1976. Poco dopo, suo figlio maggiore Muhammad divenne medico e la situazione finanziaria della famiglia iniziò a migliorare.

Tra le tradizioni del Ramadan osservate da mio padre (il figlio maggiore di Abdallah al-Haj Saleh) e da mio zio Mustafa (figlio maggiore di Humaidi al-Haj Saleh) c’era la recitazione dell’intero Corano. Questa non era un’impresa che chiunque potesse realizzare. In emulazione degli adulti di cui mi ero guadagnato le lodi attraverso il mio rendimento scolastico, ho preso parte a questa sfida durante i Ramadan in cui digiunavo nel villaggio. In prima media sono riuscito a finire il Corano in 19 giorni, un’impresa di cui mi sono assicurato di vantarmi davanti a mio zio Mustafa, che non si risparmió nel lodarmi. Desideroso di saperne di più, ricominciai il libro dall’inizio, con l’obiettivo di completarlo una seconda volta prima della fine del mese, ma diventai pigro prima ancora di finire il secondo (e più lungo) capitolo, Surat al-Baqarah, e rinunciai , soddisfatto di aver già pagato a sufficienza i miei debiti.

Riesco a malapena a ricordare qualcosa degli studi di religione a scuola. Forse all’epoca non esisteva una cosa del genere. Con un solo insegnante fino alla mia quarta elementare, poi due in quinta e sesta, in sole due aule per tutte e sei le classi, le classi tendevano tutte a confondersi. Ricordo lezioni di lettura, aritmetica e calligrafia, poi grammatica, scienze, storia e geografia. Quel poco che posso ricordare della lezione di religione equivaleva a memorizzare capitoli o versetti del Corano. Non ricordo dove ho imparato a pregare, anche se credo sia stato con mio padre, non a scuola.

Iniziai a pregare in prima media, di mia spontanea volontà. Mio padre non cercó di imporcelo, né ho visto nessuno dei miei tre fratelli maggiori farlo. Mi lavavo con la stessa pentola di rame usata da mio padre, poi eseguivo le abluzioni rituali. La maggior parte delle volte, eseguivo ogni preghiera al momento designato.

Mio padre cercava di rendermi le cose più facili, dicendo che andava bene unire due preghiere in una, cosa che a volte facevo. Ma preferivo recitare ogni preghiera all’ora stabilita. Una volta, in quella che era probabilmente l’estate del 1971, recitai la preghiera del tramonto su un ponte di legno di fronte alla casa dove dormivamo nei mesi caldi. Quando finíi di pregare, fui sopraffatto da una straordinaria serenità, una calma e una pace mentale che non avevo mai provato prima. Non accadde mai più durante le preghiere successive, ma quei momenti preziosi sono rimasti vivi nella mia memoria. Niente da allora li ha eguagliati, tranne occasionali momenti di tranquillità durante la lettura di libri in prigione.

Tuttavia, le mie preghiere non erano sempre così solenni. Più tardi quello stesso anno, in autunno, i miei fratelli Saleh e Mustafa cercavano di macchiare i miei momenti sacri facendomi ridere durante essi. Era l’anno dopo i massacri del “Settembre nero” in Giordania e la radio siriana dedicava un’ora al giorno alla Palestina, a partire dalle 18:30, la presentava un uomo con un presunto accento palestinese di nome Abu Salim. Una volta, Abu Salim stava criticando il re di Giordania Hussein per aver promesso che i guerriglieri palestinesi “non sarebbero passati” dalla Giordania in Palestina per compiere operazioni contro gli occupanti israeliani. A quanto pare, la pronuncia di Abu Salim delle parole “shall not pass” (“ma yumarrkoosh”) fu sufficiente a farmi scoppiare a ridere. E Saleh pensava che non ci fosse momento migliore per ripetere la frase proprio quando ero prostrato in preghiera, riempiendomi di rabbia e risate in egual misura.

Fu più o meno nello stesso periodo, in prima media (1970-71), che mi imbattei in un numero di una rivista sovietica — forse al-Madar (The Orbit) o ​​al-Ittihad al-Sufyiti (The Soviet Union) — le cui foto colorate mi sono piacquero. Vedendo che lo tenevo in mano, la mia maestra me lo strappò furiosamente dalle mani e lo fece a pezzi, dicendo: “Questa è una rivista comunista!” Contro questa cruda ingiustizia non potevo fare nulla. Potrebbe essere stato più o meno in quel periodo che lo stesso insegnante mi regaló un libro religioso sull’Islam, con una copertina verde oliva e, ovviamente, senza immagini. Mi annoiava a morte e ora non ricordo proprio nulla del suo contenuto. Anni dopo, quell’insegnante divenne un “commissario per i giovani” in una delle scuole di Raqqa, il che significa che doveva essere un baathista.

L‘autunno del 1971 segnò la prima grande separazione della mia vita, quando lasciai mia madre per vivere a Raqqa con i miei fratelli Saleh e Mustafa, che allora frequentavano rispettivamente la nona e la sesta classe. Il nostro fratello maggiore Muhammad si era classificato secondo in tutta Raqqa agli esami di maturità quell’estate, guadagnandosi un posto all’Università di Aleppo per studiare medicina. Il suo nome fu letto alla radio di Damasco e gli venne concesso dallo stato uno stipendio mensile di 150 sterline siriane (che allora valeva 40 dollari) , che era un’ancora di salvezza per i nostri genitori. Nostro padre stesso all’epoca cercava un lavoro a Raqqa, lavoro per il quale non sarebbe stato pagato più di quella somma.

A Raqqa ho continuato a pregare per un mese o due, poi ho smesso. Non c’era una ragione particolare per questo che posso ricordare. Sotto l’influenza dei miei fratelli Saleh e Mustafa – per non parlare dell’anziano Muhammad, che aveva insegnato loro i suoi modi – iniziai ad entrare in un mondo diverso, fatto di “cultura”, libri, idee e argomenti: il mondo della mente. Tra gli argomenti dibattuti in questo mondo c’era l’esistenza di Dio. Mio fratello Mustafa credeva che tutto potesse essere spiegato dalla natura. Gli chiedevo: “Chi ti ha creato?” Rispondeva: “Natura!” Quando chiedevo chi ha creato la natura, rispondeva: “Chi ha creato Dio?” Una volta parló dell’universo originato dalle nebulose cosmiche, una tesi che poi ho appreso proveniva da Immanuel Kant.

I miei fratelli ed io abbiamo frequentato la scuola sia nel villaggio che a Raqqa. Mio padre è stato costretto a vivere con noi a Raqqa mentre lavorava part time come bracciante, poiché il reddito della nostra terra non bastava più alla nostra famiglia di 10 persone, che sono diventate 11 dopo la nascita di Firas nel 1972. Stavamo entrando nell’adolescenza lontano da nostra madre, che era rimasta con i bambini più piccoli del villaggio. Il nostro reddito era scarso. La vita era dura.

Un venerdì, alla fine del 1971 o all’inizio del 1972, mio ​​padre mi portò a pregare con lui alla moschea al-Fawwaz, vicino alla stanza che io e i miei due fratelli affittammo con lui a Raqqa per 45 sterline siriane (12 dollari) al mese. Entrando in questa moschea nel mezzo di Tell Abyad Street, mi sentíi come se tutti gli occhi nella sala di preghiera fossero puntati su di me, mettendomi profondamente a disagio. Fino ad allora, avevo pregato solo da solo. Dopo essere rimasto per un po’ accanto a mio padre, mi infilai tra le file dei fedeli uscendo cosi dalla moschea, liberandomi dagli sguardi indiscreti dei curiosi. Probabilmente mio padre in seguito mi chiese perché me ne fossi andato, al che probabilmente borbottai qualcosa in imbarazzo – non ricordo. Ad ogni modo, non provó mai a farlo di nuovo. Quella è stata la prima e l’ultima volta che sono entrato in una moschea, a Raqqa o altrove, fino al 2008, quando sono andato in diverse moschee a Damasco e Aleppo fingendomi un adoratore mentre lavoravo al mio libro “Asatir al-Akhirin: Naqd al-Islam al-Muasir wa Naqd Naqdihi” (“Le mitologie dei successori: una critica dell’Islam contemporaneo e una critica della critica”).

Durante il nostro primo anno a Raqqa, non ricordo ci fossero libri nella nostra stanza in affitto, a parte i libri di testo scolastici. Avevamo una radio, con la quale ogni mattina ascoltavamo la star libanese Fairuz nel programma “Marhaban Ya Sabah” (“Hello, Morning”) di Damascus Radio. Nel pomeriggio, la musica passava alle canzoni di Abdel Halim Hafez, Nagat, Shadia, Fayza Ahmed, Afaf Radi, Warda, Muhammad Rushdi, Muhammad Abd al-Wahhab e altri. La sera era Umm Kulthum. Fu in questo periodo che si svilupparono i miei gusti musicali, che erano per lo più egiziani, poi libanesi. Per tutto il giorno, la radio forniva anche notiziari regolari per ricaricare la nostra dose di dottrina patriottica.

A partire dall’anno successivo, però, nella nostra stanza c’erano altri libri e riviste. Iniziai a leggere romanzi stranieri tradotti in arabo, come i gialli dell’autore francese Maurice Leblanc, con protagonista il famoso personaggio di Arsène Lupin. Per qualche ragione, non ho letto nulla delle opere di Khalil Gibran impilate sui nostri piccoli scaffali.

Quello stesso anno, il 1972, fu testimone di una scissione nel Partito Comunista Siriano. Nel nostro ambiente sociale, questo scatenó accese discussioni, nelle quali so schierarono i miei fratelli. I “Bakdashisti” – seguaci del principale leader del partito, Khalid Bakdash – furono denunciati, così come un opuscolo su Bakdash pubblicato nello stesso periodo, intitolato “Quarant’anni di lotta”. La battuta tra i detrattori di Bakdash era “quarant’anni di lotta: metà addormentati, l’altra metà in fuga in Russia!” Non riesco ora a ricordare se il nome di Riad al-Turk, capo del ramo comunista dissidente, fosse già entrato nelle nostre conversazioni in quel momento.

Rimasi completamente incantato da questa atmosfera, affascinato dai suoi dibattiti, dalla vitalità giovanile e dall’astrazione. Una conversazione in particolare mi è rimasta impressa nella mente.

Mio fratello Muhammad, allora a Raqqa in pausa dall’università ad Aleppo, stava discutendo con un altro dei miei fratelli, Mustafa, che all’epoca frequentava il liceo ed era uno zelante comunista. Ad un certo punto, Muhammad chiese beffardamente: “Perché! Il marxismo è una teologia? ” Ho amato sia il fraseggio che il significato delle parole, che hanno lasciato un’impronta indelebile in me. Anche dopo aver smesso di pregare a Raqqa, continuavo a digiunare durante il Ramadan, l”ho fatto fino alla terza media, quando rinunciai anche a quello. Insieme ai miei compagni di scuola Uwais al-Msarea e Ahmad Jasim al-Hmaidi, ero membro di un’organizzazione giovanile chiamata Unione della Gioventù Democratica, legata al ramo del partito comunista che si era separato dai Bakdashisti nel 1972, noto come Partito Comunista Siriano – Ufficio Politico (SCP-PB). Questa unione, presto perita, è stata per noi una finestra sulla “cultura”, facendoci conoscere nomi di scrittori che in realtà non avevamo mai letto: Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Simone de Beauvoir, Alberto Moravia, Colin Wilson, Maxim Gorky (“Maxim” era il nome di battaglia di Ahmad nel sindacato), Vladimir Mayakovsky, Federico García Lorca, Pablo Neruda (che era il mio pseudonimo), Pablo Picasso e Salvador Dalí. Soprattutto c’erano Marx, Engels e Lenin.

Acquisimmo familiarità con la letteratura straniera prima di conoscere la stessa letteratura araba moderna. Ahmad era l’intellettuale tra noi tre, e mi stupiva con la sua capacità di snocciolare infiniti nomi di scrittori e pensatori stranieri. Avrebbe anche potuto scrivere storie. In seconda media, dopo che ci eravamo separati in seguito a un litigio, fece pubblicare un articolo sul quotidiano ufficiale di stato, al-Thawra (La Rivoluzione), con niente meno che il titolo di “Prometheus”. La mia invidia era tale che scrissi io stesso una storia, intitolata “Nel cuore del tempo morto”, ma il giornale si rifiutó di stamparla, anche se l’editore della pagina culturale mi disse che la storia era “artisticamente avanzata”. Ahmad in seguito divenne un neurologo e mantenne la sua passione per la cultura, scrivendo un libro alla fine degli anni ’80 intitolato “L’eroe epico nei romanzi di Abd al-Rahman Munif”. Era un alcolizzato morto di cirrosi epatica a Raqqa a metà degli anni 2000. Quanto a Uwais, morí per una malattia ereditaria mentre eravamo ancora a scuola.

In questo nostro mondo non c’era posto per il digiuno, la preghiera o la religione nel suo complesso. Il mondo della letteratura e della cultura era in contrasto con quello della religione e delle sue pratiche, che sembravano datate, costrittive e prive di fantasia. Volevamo libertà e creatività, e la trovammo nella “cultura” e nel “comunismo”. Stavamo andando avanti e sembrava che la società intorno a noi stesse facendo lo stesso.

Nel 1974 ottenni una tessera per prendere in prestito libri dal centro culturale di Raqqa – un’istituzione pubblica – e cominciai a ritirare romanzi tradotti, in particolare russi e francesi. Li leggevo avidamente per ore e ore. Di tanto in tanto andavo anche nella sala di lettura del centro, vicino al nostro liceo, al-Rasheed, per leggere il giornale al-Thawra e il suo supplemento culturale, così come la rivista al-Mawqif al-Adabi (La posizione letteraria).

Oltre agli autori citati sopra, negli anni del liceo iniziai a leggere romanzieri arabi. Di questi, ricordo l’autore kuwaitiano Ismail Fahd Ismail, i cui libri erano sui nostri scaffali per qualche motivo. (Era un “compagno”?) Ci deve essere stato un errore di stampa nella mia copia del suo romanzo “Kanat al-Sama Zarqa” (“Il cielo era blu”), perché il titolo diceva “Kanat al-Sama al-Zarqa “(“The Blue Sky Was”) – un solecismo che ho trovato bizzarro. Un altro dei suoi romanzi era intitolato “al-Mustanqaat al-Dhawiya” (“The Luminary Swamps”), che, se non ricordo male, si riferiva a macchie di luce in una buia cella di prigione.

Mentre oggi dimentico i nomi di libri e autori che ho letto solo poche settimane fa, ricordo ancora di aver letto allora “al-Qalaa al-Khamisa” (“La quinta fortezza”) dell’iracheno Fadhil al-Azzawi, e “al- Zaman al-Muhish” (“Il tempo desolato”) del siriano Haidar Haidar. (Quest’ultimo finí di nuovo nelle mie mani quando ero nella prigione di Adra fuori Damasco nei primi anni ’90, e non riuscí a superare le prime pagine.) Ho anche avuto la fortuna di leggere la trilogia del Cairo del romanziere egiziano Naguib Mahfouz, insieme con il suo “Awlad Haratina” (“I figli di Gebelawi”) e la maggior parte degli altri romanzi che aveva pubblicato in quel periodo. Un altro piacere è stato “Season of Migration to the North” di Tayeb Salih, anche se non sono riuscito a finire gli altri suoi romanzi scritti in dialetto sudanese.

Forse questo vivo interesse per i libri e le parole è stato di aiuto al mio io timido e adolescente, che viveva in un ambiente strettamente controllato dove la compagnia delle coetanee non era disponibile.

Mio padre non era contento della nostra traiettoria comunista, anche se all’epoca non sembrava far presagire nulla di particolarmente grave, e non ci fece molto caso. Avrebbe preferito che i suoi figli fossero diventati baathisti, in modo da poter assicurarsi posti di lavoro e opportunità di carriera che, a suo avviso, sarebbero andati ad altri meno meritevoli dei suoi figli. Alla al-Rasheed High School, un consigliere cercó di convincermi a unirmi al partito Baath, ma anche a quei tempi il partito non riusciva a guadagnarsi il rispetto di un adolescente innamorato della cultura e del comunismo. Non ne avrei preso parte. In seguito, il “partito guida della società e dello Stato” – come la costituzione descriveva ufficialmente il partito Baath – si prese la sua rivincita mandando uno dei miei coetanei al posto mio in Francia per un viaggio di due settimane per studenti che eccellevano in francese, anche anche se i miei voti erano migliori dei suoi, in francese e in tutte le altre materie.

In verità, immagino che mio padre avesse sentimenti contrastanti. Da un lato, si rammaricava delle mancate opportunità di promozione e influenza dei suoi figli. Dall’altro, era soddisfatto del nostro rendimento scolastico, che andava da accettabile a buono. Mia madre, allo stesso modo, avrebbe preferito che i suoi figli avessero avuto più successo nel mondo, ma era felice che godessimo di distinzione all’interno del contesto sociale che conosceva. Una volta, in una discussione su di noi al villaggio, la moglie di mio nonno si fece beffa della parola “comunisti”. Al che mia madre furiosa rispose: “Comunisti e più onorevoli di te!” I genitori di Muhammad, Abu Muhammad e Umm Muhammad, trovarono conforto nel fatto che il loro figlio maggiore un giorno avrebbe studiato per diventare medico.

Alle medie e alle superiori c’erano due lezioni di religione ogni settimana. Questi comportavano la memorizzazione di “hadith” – detti attribuiti al profeta e altri aneddoti biografici su di lui. Essendo uno che fino ad allora aveva conosciuto solo il Corano, questo era nuovo per me. C’erano anche “guida e orientamento” religiosi, derivati ​​sia dal Corano che dagli hadith, che eravamo obbligati a conoscere e a rispondere alle domande nei test. Le lezioni di religione non hanno mai avuto alcun interesse per me ma, da studente coscienzioso, riuscivo a prendere comunque buoni voti.

Nell’estate del 1974 o ’75, uno sceicco sufi di nome Muhammad Khan venne nel nostro villaggio. Evidentemente un uomo di un certo carisma, si guadagnò rapidamente la fiducia degli abitanti del villaggio, tranne quella di mio padre. Ibrahim al-Haj Saleh era dell’opinione di conoscere la sua religione sufficientemente da non richiedere lezioni su di essa da parte di un estraneo. Sotto questo aspetto, era piuttosto simile al suo temibile padre, al quale nessuno avrebbe osato avvicinarsi. Non molto tempo dopo, Khan tradí la fiducia degli abitanti del villaggio, confermando i sospetti di mio padre. Si seppe che, una notte, quando uno dei miei zii era lontano da casa, Khan era stato ospitato a casa dell’uomo come ospite da sua moglie. Questo potrebbe non essere stato scandaloso di per sé – al contrario, le donne erano lodate per aver aperto le loro porte ai visitatori – tranne per il fatto che il sufi cercó di convincere la zia in questione che era posseduta da uno spirito maligno, che lui, come uomo di Dio, avrebbe potuto esorcizzare sdraiandosi sopra di lei. Lo cacció di casa e quella fu l’ultima volta che qualcuno vide Khan nel villaggio.

Qualche tempo dopo, forse di nuovo nel 1975, un altro sconosciuto si presentò ad al-Jurn. Si chiamava Ibrahim Shanwan, si diceva che provenisse dalla Giordania. Quest’uomo non era un sufi, ma apparentemente un partigiano dei Fratelli Musulmani. La sua presenza riuscí quasi a scatenare una guerra civile nel villaggio. Alcuni dei miei zii lo accolsero, in particolare Mustafa, il cui status sociale era in declino quando le sue finanze diminuirono e il mathafa smise di svolgere il ruolo che aveva avuto una volta come spazio pubblico. È possibile che alcuni degli zii abbiano lavorato per mettere Shanwan contro la nostra casa “comunista”. Mio padre era scettico nei suoi confronti, in ogni caso, e se ne tenne alla larga. Dopo aver alzato la tensione nel villaggio per alcune settimane, Ibrahim Shanwan se ne andó.

Quando si trattava di relazioni con artisti del calibro di Shanwan, e Khan prima di lui, gli abitanti del villaggio non erano partecipanti né neutrali né passivi. Al contrario, colsero l’occasione per cercare di distinguersi all’interno del villaggio a spese dei loro vicini. Chiunque ospitasse un visitatore di apparente status o influenza guadagnava punti nella competizione tra le case del villaggio, che erano non più di 10. Anche l’atteggiamento di mio padre di ritenersi al di sopra di tutto non era esente da tali considerazioni. Da anni era abituato a intrattenere rapporti migliori di altri con i maestri, fatto non estraneo ai buoni voti dei suoi figli. Nei suoi rapporti con Shanwan in particolare, potrebbe anche essere stato influenzato dai suoi figli. Mio fratello Mustafa, che allora aveva 20 anni, all’epoca si era fatto crescere la barba. Nell’unica occasione in cui Shanwan era venuto a casa nostra una sera d’estate, fece un commento sulla barba “simil-Castro” di Mustafa. Mio padre non nascose il proprio risentimento per questa intrusione in casa sua, e lo stesso Mustafa disse qualcosa di poco rispettoso sulla categorizzazione delle barbe da parte dei Fratelli Musulmani. La visita non fu un successo.

In quel momento, la tradizionale competizione per lo status sociale in quel remoto e microscopico villaggio siriano cominciava a costellarsi attorno a una fonte nascente di formidabile potere: il regime di Hafez al-Assad (che aveva preso le redini nel 1970), che faceva sentire sempre più la sua presenza attraverso l’apparato del partito Baath e varie agenzie di sicurezza. Alcuni dei miei zii e i loro figli si unirono al partito Baath e alla cosiddetta Associazione dei contadini, un fatto che ebbe effetti tangibili sui rapporti familiari nel villaggio. Nel 1976 mio fratello Saleh fu licenziato dal suo lavoro di insegnante presso la scuola del villaggio, sulla base di un “rapporto sulla sicurezza”, forse scritto da uno zio dell’età di Saleh. Saleh insegnava a scuola mentre studiava all’università contemporaneamente. Il suo licenziamento fu il primo di molti tormenti che mia madre avrebbe dovuto sopportare negli anni a venire, anche a causa della schadenfreude dei parenti che si rallegravano per la caduta del primo figlio del villaggio che insegnava alla scuola. Fu a metà degli anni ’70 che gli innocui litigi degli abitanti del villaggio si trasformarono in gravi fratture a causa degli interventi di questa nuova forza dannosa: il regime di Assad.

Alla al-Rasheed High School di Raqqa, stavo diventando un adolescente sicuro di sé, di successo accademico, con una vena ribelle. I miei amici e io avremmo saltato oltre il muro della scuola per sfuggire alla lezione di religione o di “nazionalismo socialista” se avessimo saputo di farla franca. (A volte venivamo catturati, nel qual caso la nostra punizione era strisciare attraverso il cortile della scuola.) Una volta, durante l’ora di religione, l’insegnante menzionò la parola “vulva” e un ragazzo di nome Abd al-Muhsin alzò la mano e chiese: ” Che cosa significa ‘vulva’, signore? L’insegnante perse la pazienza ordinando al ragazzo di uscire dall’aula. Poi ci chiese come si chiamava il piantagrane. Nessuno rispose. A dispetto della sua autorità e per un senso di solidarietà di gruppo, restammo in silenzio, finché un ragazzo non cedette, rivelandone il nome. Questo ragazzo era religiosamente devoto e forse si sentiva in conflitto tra la lealtà verso il suo compagno di classe e una pia repulsione per tale oscenità. Per me, questo era un altro punto contro la pietà.

Nel 1977 iniziai a studiare medicina all’Università di Aleppo. Qui divenni comunista. A quel tempo, ciò significava un’opposizione attiva al regime di Assad, piuttosto che il mantenimento passivo di idee trasgressive. In verità, il mio “comunismo” è sempre stato più una questione di opposizione politica che di ideologia o simbolismo. Il partito a cui mi ero unito, l’SCP-PB, assunse una posizione più radicale contro il regime rispetto al principale Partito Comunista Siriano (SCP) dal quale si era separato cinque anni prima. La sua retorica adottava il linguaggio e il vocabolario della democrazia, in contrasto con il tradizionale linguaggio comunista. Nel mio secondo anno di università, iniziai a leggere nuovi tipi di opere: libri su Lenin, trattati sovietici sulla filosofia marxista e un po’ di Marx ed Engels (“Il manifesto comunista” e “L’origine della famiglia, la proprietà privata e la Stato”). Lessi tutte le opere disponibili del siriano di sinistra Yassin al-Hafez e altri di Abdallah Laroui e Burhan Ghalioun. E imparavo dai compagni.

Nei tre anni trascorsi all’università prima del mio arresto e della mia prigionia, ho potuto vedere un lato severo e austero della religione che non avevo mai conosciuto prima. Nella lezione di biologia del mio primo anno, un insegnante di nome Adnan Qashlan disse qualcosa sull’anima, attribuita alle complesse funzioni delle proteine, se non ricordo male. Una tesi piuttosto riduzionista, senza dubbio. A questo, uno studente barbuto si alzò senza chiedere il permesso e recitò il versetto del Corano: “Ti chiedono dello Spirito, dicono: ‘La sua natura è nota solo al mio Signore, e a te [cioè all’umanità] è stata data solo poca conoscenza .’” Lo studente sfidava apertamente l’insegnante e la sua tesi “materialista”. Eppure l’insegnante non lo buttó fuori dalla classe né si arrabbió . Personalmente trovai il comportamento dello studente rozzo e meschino. Il fatto che la natura dello Spirito fosse nota solo al suo Signore non significava che il resto di noi non potesse imparare nulla al riguardo. Lo studente stava mettendo in mostra il suo potere di mettere a tacere un tentativo di spiegazione scientifica della realtà – un tentativo che era suscettibile di critica, certo, ma non da una posizione che non ammetteva alcuna critica a se stesso. L’autorità della religione stava sfidando l’autorità della scienza, nientemeno che all’interno di un’università.

Nell’estate dopo il mio secondo anno di università, fummo obbligati a frequentare un campo di addestramento militare, dove avrebbero dovuto insegnarci le vie del combattimento. Era il mese del Ramadan. Un giorno, uno dei tirocinanti di Raqqa stava fumando una sigaretta quando venne affrontato in modo aggressivo da un altro, che si lamentaca di essere insensibile a coloro che digiunavano. Mentre le loro voci si alzavano, arrivó l’ufficiale militare incaricato dell’addestramento e li rimproverò entrambi, ma soprattutto quello devoto. Era l’agosto 1979, appena due mesi dopo il massacro di dozzine di cadetti dell’esercito da parte di militanti legati ai Fratelli Musulmani presso la scuola di artiglieria di Aleppo. Il regime era in guardia contro gli islamisti. Nello stesso campo un giorno fui avvicinato da un compagno di studi dal viso gentile e dalla barba curata, che era l’unico tra noi che indossava un caffettano e un cappello dello stesso materiale. Mi chiese se avessi voluto “partecipare” con “loro”. Partecipare a cosa? Ho chiesto. Recitare lodi per il profeta, disse. Non risposi. Avevo portato con me diversi romanzi da leggere al campo, tra cui “Najmat Aghustus” (“La stella d’agosto”) di Sonallah Ibrahim.

Era un segno dei tempi che l’unica donna di Raqqa nella nostra classe universitaria avesse iniziato a indossare l’hijab all’inizio del 1980. Entro la fine di quell’anno sarei stato arrestato.

La prigione segnó la seconda grande separazione della mia vita, dopo la separazione da mia madre e dalla nostra casa ad al-Jurn nel 1971. Questa volta, fu una separazione dal corso normale e previsto della vita per un giovane di 20 anni, poiché era una separazione da amici e compagni di classe e da opportunità di amore o sesso. (Avevo una ragazza prima della prigione, anche se il nostro rapporto fisico era limitato alla metà superiore del corpo.) Successivamente, questa separazione venne in una certa misura attenuata quando ci vennero concessi libri e materiali per imparare l’inglese nella prigione al-Muslimiya di Aleppo, a partire nella seconda metà del 1982. Ciò consentiva nuove possibilità di apprendimento e cambiamento.

In carcere ebbi anche esperienze religiose di un certo tipo, che ho raccontato in dettaglio nel mio libro “Bil-Khalas Ya Shabab! 16 Aman fil-Sujun al-Suriya” (“Salvezza, ragazzi! 16 anni nelle prigioni siriane”). Nel 1987 ci furono negate tutte le visite per un periodo di circa 20 mesi. (Questo valeva per quelli di noi che non avevano legami o intermediari con il regime, una questione non priva di dimensioni sociali, politiche e settarie). Sei medi dopo di me, e Khalid, fu arrestato anche Mustafa. Questa fu più di un’agonia per nostra madre: un assalto alla sua stessa vita. In effetti, morì di cancro poco dopo, nel 1990, mentre noi tre eravamo ancora in prigione.

Durante il periodo in cui le visite erano vietate, i visitatori potevano ancora venire in prigione e cercare di farsi strada all’interno. Se i guardiani accettavano di chiudere un occhio, cosa che a volte accadeva, era possibile per noi parlare a questi visitatori attraverso le finestre della nostra ala. Da queste finestre vedemmo spesso nostra madre, che non smise mai di cercare di visitare i suoi tre figli in carcere, fare il viaggio di 130 miglia da Raqqa ad Aleppo senza mai riuscire ad incontrarci come era dovuto. Portava denaro, cibo e vestiti, che a volte riusciva a darci ed a volte no. Una volta, poco prima dell’inizio del Ramadan, chiese a me (e forse anche agli altri miei fratelli) di digiunare. E digiunai davvero, anche se senza osservare altri riti religiosi oltre a quello. Era un digiuno dedicato a mia madre, un ponte che ci univa e un’offerta per il suo perdono per tutto il dolore che io e i miei fratelli le avevamo causato. Ho digiunato ancora una volta il primo giorno del primo Ramadan dopo la sua morte, ma mai più. La sua assenza, e il rilascio dei miei fratelli dalla prigione alla fine del 1991, hanno alleggerito il mio fardello a riguardo.

Ripensandoci oggi, quell’esperienza di digiuno sembra un addio liberatorio. Proprio come la prigione nel suo insieme è stata per me come una seconda infanzia, consentendo (spero) una liberazione dalla prima infanzia e dai suoi mondi, così questa breve seconda fase di religiosità è stata una rivendicazione di commiato dalla sua precedente controparte. Tuttavia, voltando la pagina della religione in modo ordinato nel mio pensiero e nella mia pratica, penso di aver evitato la trappola del suo contrario, cioé una fervida e isterica ostilità alla religione. Ho incontrato esempi di quest’ultima e non lo trovo più attraente o meno ipocrita del fanatismo religioso stesso. Le mie precedenti esperienze di vita mi hanno reso contrario a entrambi in ugual modo.

Registro questi ricordi come una testimonianza personale, che può assomigliare o meno a quella di altri della mia generazione, e da cui le generazioni più giovani possono trarre le conclusioni che vogliono. Eppure il motivo più forte per scriverli è la mia convinzione che, per molti di noi intellettuali e attivisti politici “laici”, le nostre posizioni nei confronti dell'”Islam” (e di altre religioni) sono modellate in misura considerevole dalle esperienze e dai ricordi dell’infanzia. La caratteristica distintiva della mia generazione, e forse di quelle più anziane all’interno del mondo arabo – direi – è uno sviluppo arrestato. A partire dagli anni ’70, le trasformazioni politiche, sociali ed economiche in corso, spesso a vantaggio della popolazione generale, si sono concluse. Si spense così la forza emancipatrice che aveva spinto le società arabe verso nuove esperienze, idee e organizzazioni. Ha anche impedito loro di abbandonare le esperienze precedenti o li ha spinti indietro verso di loro dopo una breve separazione.

Credo che una revisione della produzione dei nostri principali intellettuali dagli anni ’80 lo chiarisca. Il defunto scrittore siriano George Tarabishi descrisse la rinascente religiosità dell’epoca come un atto di “apostasia”. Eppure, al di là degli scomodi paralleli religiosi nel termine – l’assoluta certezza nella verità della dottrina respinta dagli “apostati” – nasconde anche un declino all’interno dello stesso campo secolare. Sia gli “apostati” che non pochi di coloro che “non sono minimamente cambiati” (per citare il Corano 33:23) sono simili nell’aver perso una grande libertà di pensiero e di pratica. Il trentennio circa tra gli anni Ottanta e le recenti rivolte arabe ha visto una generale rinuncia alla libertà, in nome della “ragione” e della “modernità” non meno che della religione.

Le esperienze dell’infanzia ci legano alle nostre origini. La loro influenza non può essere superata dai giovani che non sono esposti a orizzonti più ampi, interazioni più ampie e mondi nuovi e diversi. Ci è stato negato il linguaggio necessario per esprimere la nostra eredità dall’infanzia e dall’adolescenza, a causa dell’ambiente restrittivo che prevaleva. La liberazione e l’immaginazione che un tempo intravedevamo all’orizzonte sono scomparse in un presente ripetitivo che ruota su se stesso. Piuttosto che impossessarci della nostra infanzia e andare oltre, deridiamo e respingiamo ciò che abbiamo ereditato da loro come pensiero “arretrato”, non scientifico e superstizioso.

Questo vale per molti della mia generazione. Abbiamo soppresso la nostra infanzia e non l’abbiamo mai superata del tutto, perché ci era proibito liberarci e raggiungere l’indipendenza. Ciò che così disdegnavamo e reprimevamo si rifugiava nel nostro inconscio, pur continuando a penetrare anche nella nostra coscienza, colorando i nostri pensieri e scritti, tanto che ciò che sta tra le righe spesso contraddice le righe stesse. Questo perché, invece di descrivere le nostre esperienze, illuminarle e spostarle nel regno del pensiero cosciente, dove potrebbero diventare conoscenza suscettibile di discussione e aggiunta, la nostra nozione di “conoscenza” le ha imprigionate nelle profondità del sé. Se mai riuscissero a risalire in superficie – alla coscienza – potrebbe essere solo tra le righe. Sulle linee stesse eravamo adulti maturi, mentre tra le linee rimanevamo bambini incapaci di crescere. Quando scoppia una grande crisi sociale, politica, intellettuale e psicologica, come è successo due volte in Siria nell’arco di 30 anni (prima dal 1979 al 1982, poi dal 2011 ad oggi), il nostro sobrio e dignitoso “sapere” va in frantumi e i bambini dentro di noi tutti vengono fuori. Il soppresso si precipita in superficie e lo spazio tra le righe contesta ciò che dicono le righe. La prosa diventa un campo minato. La parola scritta è una contraddizione, dice una cosa e il suo contrario simultaneamente. Tutti sono spinti a dubitare di tutti gli altri, perché parlano con questa voce o con quella? I testi, e le loro relazioni con sé stessi, diventano spazi di guerra civile.

Quando le persone della mia generazione trascorrevano la loro adolescenza venendo arrestate, torturate e imprigionate per anni e anni, questo non era un evento eccezionale che accadeva solo a una piccola minoranza. Tutti i giovani siriani sono stati imprigionati in un modo o nell’altro. Non pochi divennero ostaggi delle loro molteplici prigioni: la prigione della “conoscenza”, intimamente legata a un’autorità patriarcale, e la prigione fisica, che incarnava il divieto dell’indipendenza. Se e quando quest’ultima non è stata letteralmente una delle prigioni di Assad, è stata la reclusione del ristretto gruppo comunitario (che era anche, di fatto, una delle prigioni di Assad). Il presente era riservato all’eterno sovrano, al futuro era proibito arrivare e solo il passato era nostro possesso.

O meglio, ci possedeva. Senza spazio in cui tenere discussioni pubbliche, il nostro passato è stato privato di un linguaggio collettivo che ci aiutasse a prenderne il controllo, a separarlo e a separarci l’uno dall’altro.

Di fronte alle simultanee eruzioni e implosioni della Siria, né i giovani né gli anziani salveranno la loro dignità senza scrutare il vecchio e riappropriarsene. Potrebbero anche aver bisogno di produrre una scrittura che non si distrugga a causa della tensione tra le sue righe e ciò che si trova tra di esse, come ha fatto e fa ancora la nostra generazione evasiva. L’evasività non vince il determinismo sociale quando la politica è proibita, ma è piuttosto il mezzo attraverso il quale la nostra stessa liberazione è vinta. Eppure il determinismo, a sua volta, non è onnipotente. Non è predeterminato che il bambino sia il padre dell’uomo (per citare Wordsworth). I due possono essere separati, ma ciò richiede di assumere la proprietà della lotta e della traiettoria. Si tratta di insubordinazione e confronto, non qualcosa che si ottiene da sé o con il mero atto di adottare questa o quella posizione intellettuale. Ci separiamo dal passato e dall’infanzia quando prendiamo in carico il corso della nostra vita, lottiamo per l’indipendenza dalla nostra famiglia e dalle nostre origini e facciamo lo sforzo di creare futuri aperti.

Quando uscí di prigione alla fine del 1996, mi sembrava che avessimo perso 20 anni. Nel nostro villaggio, che ho visitato nel gennaio 1997, c’erano elettricità e acqua potabile, per non parlare della televisione. Le case erano certamente più comode di quanto lo fossero state durante la mia infanzia. Eppure l’istruzione era peggiore e la paura era ovunque. Molto diminuita era la speranza di un futuro più luminoso, che era esistita fino agli anni ’70 e aveva spinto molti della generazione di mio padre a fare grandi sacrifici per educare i propri figli e prendere parte al progresso generale, che consideravano un loro diritto. Del tutto scomparsa era la discussione intellettuale e politica che aveva modellato gli orientamenti e le percezioni delle persone di se stesse e dei loro ruoli. Non c’era più competizione per il possesso della politica, del pensiero e della vita, tanto erano totali la paura e la sottomissione. Ai tempi di mio padre e di mio nonno, la gente aveva resistito di più.

Nel 1997 ho visto per la prima volta una donna a Raqqa indossare il niqab, o velo integrale. Era la moglie di un mio parente, della mia stessa generazione, che aveva abbandonato prematuramente la scuola. Mi chiedo: il velo del volto è collegato in qualche modo all’incapacità di democratizzare lo status sociale, un modo per le persone di elevare il proprio rango e ottenere un minimo di sovranità sul proprio destino? Forse. Tuttavia, indubbiamente comporta anche un’oggettivazione delle donne e una loro proprietà da parte degli uomini, più o meno allo stesso modo in cui la Siria nel suo insieme è stata oggettivata e trasformata in proprietà della dinastia Assad, rendendo tutti i siriani minorenni, incapaci di trascendere la loro infanzia o raggiungere la loro indipendenza.

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