
Terza e ultima parte dell’intervista a Yassin al Haj Saleh di Catherine Coquio e Nisrine Al Zahre, tradotta dall’arabo da Marianne Babut. L’intervista si è svolta in forma scritta nell’arco di diversi mesi tra marzo 2021 e gennaio 2022. La prima parte dell’intervista può essere letta qui, la seconda qui.
(Traduzione di G. De Luca)
In( Recits d’une Syrie oubliée) Racconti di una Siria dimenticata, dici che la Siria, il paese dove è apparso il primo alfabeto umano, è diventata un “deserto” nel senso di una “terra dell’oblio”: “La tragedia dell’oblio non è stata scritta” (p. .243), e dici anche: “abbiamo un’esperienza di dimensioni prodigiose, ma è stata soffocata”. Cosi definisci “uscire dalla memoria dalle carceri” perché non diventi il vulcano dormiente di un odio che si risveglierà il giorno in cui l’oppressione sarà minore? Oggi, nel 2021, questa tragedia dell’amnesia è stata scritta in parte? L’eredità di questa rivoluzione viene archiviata per mancanza di capacità di “cambiare il mondo”? Quale tragedia ha colpito il mondo? Nel 2013 hai affermato che il mondo sembrava più una terra dell’oblio assadista che uno stato democratico. Il mondo ha dimenticato sé stesso?

La domanda che ci si pone oggi è se sia possibile che la produzione intellettuale, letteraria e artistica in esilio avrà un giorno una “vita siriana”. Vale a dire che non sia una semplice archiviazione della crisi che finisce per essere dimenticata, a forza di crisi più gravi o dell’eternizzazione di questa, che lasci in noi la sensazione che tutto ciò che facciamo è vano. Per esperienza, so che ciò che ci fa dimenticare una prova precedente è una prova successiva ancora più crudele. Ma in un Paese senza promesse come la Siria, dove eternità e sterminio si fondono, essere colpiti dall’oblio è un vero rischio. Ogni nuovo disastro relativizza i precedenti, ne diminuisce la gravità quando non li espelle semplicemente dalla memoria. Così il male è visto come banalizzato dalla paura del peggio. La storia culturale del Medio Oriente arabo ha a che fare in gran parte con gravi crisi, in particolare guerre civili, sconfitte, occupazioni straniere, ecc. Il Medio Oriente, come è stato detto, è un sottosistema internazionale segnato da una guerra sempre più seria ogni decennio da quando un intero popolo è stato privato dell’esistenza politica con la creazione di Israele. Quanto abbiamo già detto anche sulla virtuale assenza di autocritica
di cui soffre la nostra cultura – e quindi sulla fragilità della sua identità – è dovuto al fatto che quando un’entità sta appena cominciando a prendere forma e sopraggiunge una crisi essa si dissolve e perde la sua forma nascente, questa piccola accumulazione che aveva cominciato a formarsi.
In ogni luogo e in ogni momento, la storia intellettuale è intimamente legata ai grandi conflitti. L’Europa non fa eccezione. Ma la cultura in Europa si è largamente affermata attraverso università, giornali scientifici, case editrici, centri culturali, tutto ciò garantisce la continuità e la seconda fase dell’opera è il ritorno critico alla prima, il mantenimento della sua produzione culturale. Per noi la produzione culturale, e in particolare la scrittura, dipende interamente dagli individui che la producono. Tuttavia, le vite di questi ultimi sono anche esposte a crisi personali e collettive, la cui sovrapposizione la rompe regolarmente.

La cultura della memoria che si è costruita in Occidente sulla scia di esperienze genocide e totalitarie è un totale fallimento dal punto di vista dello stato politico del mondo o costituisce comunque un bagaglio prezioso, anche per i siriani in questo momento? Primo Levi, Jean Améry, Daniel Mendelsohn o Imre Kertész, come definiresti questa eredità e l’uso che ne fai e che i siriani possono farne?
Gli scritti occidentali e non occidentali sulla memoria ci hanno aiutato a rappresentare e ad appropriarci delle nostre esperienze più recenti. Mi hanno aiutato personalmente, in una certa misura, a non sentirmi solo. Più di una volta negli ultimi anni mi sono sentito nudo, senza riuscire a capire come dare un senso alla mia esperienza vissuta nell’arco di due generazioni. La ripetizione, per due volte, di esperienze crudeli solleva dubbi sulla validità della loro rappresentazione la prima volta e sulla possibilità della loro rappresentazione. Attraverso la compagnia di questi nomi, ci rendiamo conto che il mondo contiene un’infinità di esperienze, alcune delle quali offrono strumenti che ci permettono di avvicinarci anche a quelle più incredibili. Purtroppo, nessuno può davvero sapere nulla nel mondo di oggi, sul quale tanto é stato prodotto e tanto possiamo leggere e osservare. Forse presto, o forse già ora, avremmo bisogno di un cambiamento nelle nostre categorie di lettura, in particolare dell’individuo e della soggettività, in un senso più collettivo e più adatto a integrare ciò che sta accadendo nel mondo.
Il fallimento ha valore in sé? Preferisco pensare che ciò che ha valore è ciò che facciamo del fallimento, nonostante esso e contro di esso, e non a causa di esso. Il fallimento a volte può mandare in frantumi in modo completamente irrazionale vite umane. Ma alle volte ci alziamo e diamo testimonianza a noi stessi e al mondo. Questo potrebbe avere valore.
Oggi abbiamo accesso a esperienze come quelle di Levi, Améry, Antelme e quella della famiglia la cui storia Daniel Mendelssohn ha ricostruito più di sessant’anni dopo che tutti i suoi membri furono uccisi. Ci aiuta a rappresentarci, oltre che a non sentirci soli. Perché non siamo assolutamente soli, se non in virtù di un’ideologia di vittima a cui è, infatti, più facile arrendersi.
A una domanda di Justine Augier sul tuo rapporto con l’esperienza ebraica del genocidio – che è sempre nettamente distinta dalla tua critica politica a Israele – rispondi che la sofferenza ti dà il “diritto” di interferire nella peggiore sofferenza della storia. Potresti tornare a questo diritto e alla libertà che ti dà?

In una certa misura, mi sento affine alla veicenda dell’Olocausto e allo stesso tempo metto in discussione la sacralità di un’eccezionalità sovrastorica che vi è collegata. Le religioni hanno fatto abbastanza male da rendere necessario un nuovo culto, almeno non in nome del sacrificio e delle vittime. Come siriano, e in un certo senso come palestinese, lo sciovinismo della sofferenza mi costringe a ricorrere alla retorica dell’Olocausto per poter parlare; cercare di inorridire con la mia sofferenza in modo che sia vista, riconosciuta. Il regno di questa sofferenza è una monarchia assoluta che non ha nulla di costituzionale. È simile all’Arabia Saudita e non ai Paesi Bassi. Spinge alcuni suoi sudditi ad entrare in competizione, in una corsa di sofferenza dove si tratta di sapere chi ha subito più danni e ne deriverebbe quindi “più diritto” a parlare. Questo è un uso improprio dell’Olocausto e del dolore.
Con Primo Levi e Robert Antelme provo compassione per l’irritazione di Jean Améry ma non la condivido. Forse è una lite tra coloro che sono stati detenuti insieme, che durerà finché l’evidenza delle sofferenze di alcuni getterà un’ombra su quelle di altri, come fece Elie Wiesel.
Nel contesto arabo, siamo di fronte a una negazione dell’Olocausto a causa della sua strumentalizzazione per legittimare uno stato coloniale, razzista e aggressivo; o al suo legittimo riconoscimento, ma ciechi di fronte alla sua politica che ha perpetuato la catastrofe palestinese per tre quarti di secolo ormai. Penso che oggi siamo in una situazione etica e politica che permette di discutere con alcuni senza ignorare gli altri. Criticare alcuni senza lusingare gli altri.
Alla fine del libro di Justine Augier, Per una specie di miracolo. L’esilio di Yassin al Haj Saleh, tu dici che dopo aver fatto il bagno a Berlino in un “mondo” occidentale che è diventato tuo, vuoi tornare alla lettura araba. Ci puoi dire se questo “ritorno” ha qualcosa a che fare con un sentimento legato all’esperienza postcoloniale. Sei a conoscenza dei dibattiti attualmente in corso nella società francese. Qual è la tua opinione su questo?
Scrivo in arabo e non ho mai smesso di leggere in arabo, quindi non posso voler “tornare indietro”. D’altronde è vero che non conosco più le correnti di pensiero arabe così come prima della rivoluzione. Ed è a questo che vorrei porre rimedio, in particolare per quanto riguarda la riflessione sull’impatto delle rivoluzioni sul pensiero e sulla scrittura. Penso sia quello di cui ho parlato con Justine, in un libro che purtroppo non riesco a leggere. Alcuni anni fa ho pubblicato Culture as Politics, un libro nel quale affronto in modo critico il lavoro di intellettuali e pensatori arabi di cui conoscevo bene il lavoro. Questo tipo di lavoro non è più possibile per me oggi. Il fatto è che l’esule non ha alcun controllo su ciò che è in grado di sapere. Non è vero che il luogo non esiste più, che tutti i luoghi tendono ad essere equalizzati dal movimento delle idee e delle conoscenze. Le idee migliori sono nei libri. Ma il movimento dei libri non è né istantaneo né esente da considerazioni economiche, e non è libero da considerazioni politiche. Devi essere esiliato, strappato dal tuo luogo d’origine, per poter dire cos’è un posto e come cambia.
Il fatto che scriva e legga in arabo non ha nulla a che fare con il postcolonialismo. Non mi hanno rubato la voce. Le lingue degli ex colonizzatori non hanno soffocato la mia lingua materna, nella quale scrivo e ai cui lettori mi rivolgo. Al contrario, mi piacerebbe potermi rivolgere più di quanto non faccia finora ai lettori di lingua inglese. Ma i vincoli di tempo non lo consentono.
A dire il vero, ho un problema con l’approccio postcoloniale nel suo insieme. A mio avviso, centrare la storia dei nostri paesi sull’esperienza coloniale significa sospendere i decenni di storia di questi paesi da quando si sono liberati dal colonialismo “diretto”. Significa negarne la capacità di agire dei nostri governi e dei nostri popoli, questo è solo lo specchio inverso dell’etnocentrismo europeo e occidentale. In questo, il postcolonialismo fornisce una prospettiva del tutto confortevole per le aspirazioni delle élite nazionaliste e religiose “indigene”, che spesso si sono dimostrate ancora più brutali con i loro elettori rispetto ai precedenti coloni. Ciò che il regime di Al-Assad, governa da 52 anni (che rappresenta metà della storia del Paese come entità moderna), ha inflitto ai siriani è sproporzionato rispetto a ciò che hanno súbito da parte dei francesi durante i 26 anni del mandato. I francesi hanno certamente represso la rivoluzione siriana del 1925-1926 uccidendo, imprigionando, mettendo al bando migliaia di persone. Hanno certamente commesso crimini contro i siriani prima e dopo, compreso il bombardamento di Damasco nel 1945. Hanno anche applicato la politica del “divide et impera”, giustificando la loro occupazione promuovendo la civiltà e la protezione delle minoranze. Le loro azioni in Algeria sono tra le più violente nella storia del 20° secolo. Ma in tutto questo, il regime “nazionale” di al-Assad li ha imitati e superati nell’orrore e nella mostruosità.
Inoltre, la lettura postcolonialista non fornisce strumenti rilevanti per spiegare e comprendere la storia della Siria. Né prima della rivoluzione né dopo. In effetti, alcuni sostenitori del regime di Assadi invocano questa lettura, come la sinistra laica libanese e più in generale araba che sostiene Hezbollah sottomesso all’Iran. A mio parere, se Chomsky non è stato in grado di formulare nulla di significativo sulla Siria, è perché il suo approccio esclusivamente imperialista statunitense gli impedisce di comprendere qualcosa della realtà più complessa della Siria. L’emarginazione della causa siriana negli ambienti della sinistra internazionale è in larga parte legata, a mio avviso, all’egemonia del prisma postcoloniale o, in un linguaggio più classico, all’antimperialismo ereditato dagli anni della guerra fredda. Tuttavia, la causa siriana sta proprio rivoluzionando il mondo liberando il pensiero con la sua “complessità”, come sentiamo dire e ripetere ovunque. “Complesso”, nel senso che sfugge ad ogni esaustività analitica di un dato quadro teorico. Questa complessa realtà richiede però una riflessione complessa, che va al di là dei “salafismi” (nel senso di cliché tradizionali e rigidi) della sinistra. Siamo al centro di un processo che possiamo sperare possa partecipare a una rivoluzione della teoria, per mancanza di una teoria della rivoluzione.
L’unico posto in cui la teoria postcoloniale sembra avere ancora una certa energia emancipatrice è la Francia. Vale a dire proprio il Paese dove questa corrente di pensiero non è stata accolta a braccia aperte e dove alcuni suoi rappresentanti sono accusati con veemenza di “islamo-sinistra”, il che è deplorevole. Se il postcolonialismo merita di essere criticato, non è certo questa la critica che la destra francese gli dovrebbe riservare.
La rivoluzione siriana ha creato una divisione nel mondo arabo, in particolare perché Bashar Al-Assad si è atteggiato a paladino della “causa palestinese” e dell’ostilità verso Israele, colui che avrebbe condotto una formidabile politica per i profughi palestinesi nella nazione. Pensi che questo sia un malinteso deliberatamente coltivato?
Non credo che una sola persona seria possa parlare del potere assadista come di sostegno alla causa palestinese. La Palestina è un utile come strumento che il regime di Assadi ha imparato a maneggiare. Se ha preso in antipatia Yasser Arafat, è proprio perché quest’ultimo ha rifiutato di essere uno strumento aggiuntivo nelle sue mani. La natura del regime di Assad è “israeliana” e ha “palestinizzato” i siriani, praticando massacri e pulizie etniche contro, in particolare, i palestinesi siriani. La situazione dei profughi palestinesi in Siria era davvero una delle migliori nel mondo arabo. Ma questo, prima del regno di Assad. In secondo luogo, gli oppositori del regime tra i palestinesi sono stati trattati con la stessa ferocia dei siriani e centinaia di uomini e donne palestinesi sono morti sotto tortura nelle carceri del regime.

Sì, ancora una volta il conflitto siriano è complesso. E l’apparato teorico a disposizione non è in grado di interpretarlo correttamente. Il che ci pone in una situazione molto più difficile, rispetto alla causa palestinese, che può essere spiegata senza troppe difficoltà attraverso l’approccio coloniale e postcoloniale. Questa trappola interpretativa è forse ciò che spiega il fatto che molti evitino la causa siriana. Per intuizione non la capiscono, non riescono a riassumere la sua “essenza” in due o tre frasi come quelle che direbbero su quanto che c’è da sapere al riguardo. Da parte mia, quando osservo la situazione, sono combattuto tra due posizioni. La prima è quella di pensare che la Siria sia una causa senza forma, che la introduce nel concetto di atroce definito come perdita violenta della forma che costituisce una sfida permanente alla possibilità della rappresentabilità, alla produzione di senso, di significati. L’evitare ogni relazione con la Siria è simile alla repulsione ispirata dalla perdita di forma dei corpi umani consegnati all’atroce. Un’ansia di dissociazione tra essere e forma, al punto da non sapere più cosa sia questa cosa che vediamo, che ricade nel nostro campo visivo. Oppure lo sappiamo, ma è una conoscenza che fa orrore per la suddetta dissociazione. La Siria è una situazione razionalmente scomoda. Questo è ciò che molti esprimono con l’aggettivo “complesso” o “complicato”. Il mio secondo sentimento tende a sostenere la necessità di sviluppare una rappresentazione disordinata, non unificata, “arcipelago” della situazione, fintanto che non abbiamo un approccio che includa insieme elementi di colonialismo, dispotismo, nichilismo religioso violento e militarizzazione di gruppi umani i cui livelli di frammentazione sono molteplici. La Siria può non essere importante di per sé, ma rappresenta in questa situazione sorprendentemente atroce i limiti delle possibilità umane che, se si manifestano qui, possono manifestarsi anche altrove, in questa era genocratica che è la nostra. Questo impossibile che si è realizzato in Siria deve suscitare l’interesse di intellettuali, accademici e filosofi, perché costituisce un evento radicale di ciò che è l’inadeguatezza assoluta, questo impossibile che si realizza quando si verifica l’inimmaginabile, o anche questa “complessificazione”. Questa complessità è un invito a farsi coinvolgere attraverso la conoscenza e i sentimenti in questa “cosa complessa” che è la Siria. E questo se noi siriani non vogliamo diventare dipendenti dalla rabbia verso un mondo che non ci capisce e non mostra solidarietà con noi – che seduce molti di noi e ne ha già portati via molti.
Quello che è certo ai miei occhi è che nessuna via d’uscita da questa situazione sta nel passato. Le nostre recenti esperienze sono più crudeli di quanto la sensibilità disponibile oggi, su scala araba e internazionale, possa concepire. Ciò richiederebbe una rappresentabilità che ancora non esiste.
Come percepisci i primi passi della giustizia con il processo di Coblenza e le prime denunce registrate in Francia intorno agli attacchi chimici del 2013? Nelle Lettere a Samira, immagini punizioni basate su Talion ed evochi l’umorismo di Heinrich Heine prima di dire che la giustizia, al di là della sentenza, deve mettere le basi per un “patto” per il futuro. Avevi già usato questa parola in relazione al memoriale che avrebbe dovuto essere fatto dalla prigione di Palmira.
Ammetto di non essere stato entusiasta di questa procedura, che non vedevo come avrebbe fatto avanzare la giustizia in Siria, poiché non faceva parte di un più ampio sforzo volto ad ottenere giustizia. Ma Justine Augier ha sollevato un punto importante sul processo di Coblenza, il cui andamento non ho seguito. Ha detto che attraverso di esso sono state rappresentate le storie dei siriani, il che è davvero importante. È stato una volta pronunciata la sentenza che mi sono reso conto della sua importanza, in quanto costituisce un precedente in termini di condanne per reati commessi nell’ambito di funzioni all’interno dell’intelligence siriana, e rischia quindi di rendere più difficile la normalizzazione delle relazioni europee con il regime. Quando penso a come potrebbe essere la giustizia nel caso siriano, faccio una distinzione tra lo scenario ideale e irraggiungibile e gli scenari molto meno perfetti e tuttavia ugualmente difficili da realizzare. Per questo scelgo lo scenario ideale: una procedura giudiziaria siriana, pubblica, sostenuta e sorretta dal diritto internazionale, che si svolgererebbe in Siria e permetterebbe a noi, le vittime sopravvissute, di vedere processati gli accusati e giuste sanzioni. Ci sono procedimenti legali in Europa contro gli autori di crimini, alcuni appartenenti al regime di Assad e altri a gruppi islamisti, ma sono isolati e tagliati fuori da ogni concezione politica della causa siriana. Mi fa piacere che i criminali vengano puniti per i crimini che hanno commesso contro i siriani. Questi verdetti stabiliscono importanti precedenti che riducono il rischio di collaborare con criminali di alto rango a Damasco, anche nel mondo impenitente della “guerra al terrore”. Ma queste procedure non stabiliscono un legame tra giustizia e politica, che appunto dà il suo contenuto alla causa siriana. Si potrebbe concepire un caso siriano da portare davanti alla Corte penale internazionale, che unifichi la questione della giustizia. Ma nemmeno, in questo caso, sarebbe “posseduto” dai siriani e non si rivolgerebbe direttamentealla loro memoria o la loro immaginazione politica. Immagino uno scenario ideale per quanto riguarda il caso di Samira, sperando di trarre vantaggio dai precedenti relativamente simili che ci sono in diversi paesi dell’America Latina in termini di condanne per questo tipo di reato. Il criterio di ogni processo, di qualsiasi reato, è che debba stabilire una base giuridica per il processo di Bashar Al-Assad. C’è una domanda, sia legale che poetica, che chiede se c’è in assoluto una giustizia possibile riguardo alla scomparsa di Samira il cui padre, madre e sorella sono morti negli ultimi anni in sua assenza. Eppure non ho altra scelta che accettare una concezione terrena della giustizia, che beneficia dell’esperienza di coloro che hanno vissuto ciò che abbiamo passato noi, o qualcosa di simile ad essa.
Rendere i siriani padroni del processo giudiziario che li riguarda consentirebbe a questi ultimi di orientarsi verso il futuro, di fondare un sistema di giustizia e di diritto diverso da quello che è oggi. Tuttavia, non è su questo che sta lavorando il tribunale di Coblenza, né il Tribunale penale internazionale, che rimane inaccessibile.

Devo precisare che ho mantenuto un legame costruttivo nei confronti del mio partito politico durante gli anni di detenzione e successivamente. Ma in carcere il mio rapporto con esso è cambiato andando verso una direzione più “costituzionalista”. Il mio quadro di riferimento ha cessato di essere la solidarietà esclusiva, che ho cominciato a concepire come una preferenza politica e intellettuale e non più come un credo, una devozione che squalifica tutto il resto. Il mio rapporto con il marxismo ha seguito la stessa evoluzione: da soffitto sopra la testa, Marx è diventato una base su cui costruire. Questo continua a essere ritenuto inaccettabile da molti marxisti, ma la loro approvazione non ha più importanza per me.
Penso che ciò che sia stato liberatorio, fonte di emancipazione in carcere, sia stata la ribellione contro il confinamento delle nostre risorse intellettuali e spirituali a pochi scrittori o correnti date. A quel tempo, il marxismo dominava intellettualmente, anche in un paese come la Siria, non la società nel suo insieme ma nelle sue frange istruite. In questo, la nostra ribellione era diretta contro qualcosa di potente, influente, e non contro qualcosa di regressivo come lo è oggi. La critica al marxismo e al comunismo, così come continua oggi, non ha più il tenore liberatorio che aveva negli anni ’80 e, in misura minore, negli anni ’90.
Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 esisteva a sinistra una vera e propria società di ex detenuti. Ed è stato all’interno di questo gruppo che ho conosciuto Samira, anche lei in carcere per appartenenza a un partito comunista diverso dal mio. Ci siamo innamorati e ci siamo sposati. C’era una significativa solidarietà all’interno di questa società, nonostante le ben note sensibilità tra le diverse organizzazioni comuniste, che in Siria assomigliavano a quelle tra le formazioni staliniste, anarchiche e trotskiste durante la guerra civile spagnola. Con la differenza che, in patria, eravamo tutti compagni nella nostra opposizione all’oppressione. Nei primi tempi dopo la mia scarcerazione, la solidarietà che ho vissuto è stata qualcosa di importante, che ha suggellato la mia capacità di emancipazione al di fuori del partito come carcere, anche se ciò non significava che rifiutassi quest’ultimo o prendessi posizione contro di lui. Il mio rapporto con il partito continuò e divenne un rapporto costituzionale, come ho spiegato prima. Anche gli ex detenuti islamisti hanno beneficiato di reti di solidarietà e assistenza reciproca, ma in maniera minore rispetto agli ex detenuti di sinistra. Penso che i prigionieri di sinistra che hanno neutralizzato i litigi partigiani che esistevano tra loro, siano anche quelli che hanno neutralizzato i loro litigi ideologici con gli islamisti, o almeno con quelli che tendevano anche a stabilire un rapporto più “costituzionale” con la loro religione. A proposito, molti di questi ultimi sono diventati scrittori e offrono idee e analisi piuttosto divertenti.
Personalmente sono stato, per alcuni anni, uno di quelli che si sono mossi all’interno della società dei prigionieri politici, fino a quando dal 2005 ho iniziato ad organizzare il mio lavoro in modo più razionale. Da quel momento ci ho messo tutto il mio tempo e sostanzialmente ci siamo evoluti, Samira ed io, nella cerchia dei nostri amici più cari. Con la rivoluzione, il clima politico in Siria è completamente cambiato. Sono emerse nuove polarità, alcune sovrapposte a quelle più vecchie o rinate, e la solidarietà che trascende le differenze politiche è stata rara, troppo rara. L’attuale spettro di opposizione al regime non corrisponde più a quello della mia giovinezza. Non c’è continuità tra l’opposizione dell’ultimo quarto del XX secolo e quella della trasformazione del regime post-sultaniana nel 2000, né soprattutto quella del periodo post-rivoluzione. Questa trasformazione è stato il più grande salto indietro nei centoquattro anni della storia siriana. Ha ulteriormente influenzato la natura dell’opposizione al regime, come tutti gli aspetti della vita nel paese.
In quello stesso libro dici che per “domare il mostro” della prigione dovevi rinunciare a ammazzare il tempo e scegliere invece un modo per “guadagnarlo”. Per te è stato acquisire le conoscenze che la lettura offre e che “moltiplica la vita”. Tu promulghi una regola d’oro della detenzione arbitraria: “considera la tua prigione come se dovessi rimanere lì per sempre e la tua libertà come se dovessi trovarla il giorno dopo! “. Per l’altro mostro che state domando oggi, quello della rivoluzione sconfitta e del “coma” del Paese metaforizzato nell'”ermetica assenza” di Samira, quale regola d’oro vi immaginate?
Se oggi dovessi avere una regola d’oro, avrebbe a che fare con la disperazione e la speranza. Questo è stato un argomento ricorrente per me sin dagli anni della mia detenzione. Penso che oggi la speranza segua la disperazione e non il contrario. Vale a dire, non possiamo toccare la speranza senza passare attraverso la disperazione e prenderla su di noi. La disperazione è parte integrante della speranza e della sua parte più sicura: le speranze possono ingannare. Ho letto di recente il libro di Alaa Abdel Fattah*, l’attivista e scrittore egiziano detenuto dal novembre 2013, cioè solo pochi mesi dopo il colpo di stato di Al-Sisi. Alaa, ora sulla quarantina, è furioso con la speranza, che definisce una truffatrice. Combatte contro la disperazione, ma da più di otto anni soffre di condizioni carcerarie sempre più deplorevoli. La sua rabbia è comprensibile e penso di aver avuto questa stessa reazione durante i miei anni in prigione. A quel tempo, mi resi conto che puoi essere libero dalla disperazione solo liberandoti dalla speranza, il che è piuttosto terribile. Ma possiamo davvero liberarci dalla speranza e dalla disperazione? Continuo a scommettere sul fatto che il mio lavoro avrà un certo impatto, che parlerà alla generazione a venire. Cos’è questa, se non la speranza? E continuo a vivere l’ultima delle mie azioni come vana in assenza di Samira. Non è disperazione? Forse. Ma dopo aver attraversato tutte queste esperienze, la mia speranza è troppo forte per essere soffocata dalla disperazione di qualsiasi tipo. Così come la mia disperazione è troppo profonda per arrendermi e abbandonarmi alla speranza. Quindi, la regola d’oro potrebbe essere: disperare veramente per sperare, poi rinunciare alla disperazione e alla speranza allo stesso tempo, e perseverare.
Lasciarsi alle spalle speranza e disperazione e perseverare nell’essere, una volta liberati da entrambi. Ho la sensazione di aver attraversato tutto questo molto tempo fa e che, dopo la disperazione e la speranza, ci sia quella che in arabo viene chiamata l’Istimata, questo stato in cui la vita è sta per finire. È lo Stato più adatto alla lotta nelle nostre regioni, come forse oggi ovunque nel mondo.
Un’altra situazione feroce, in una vita feroce.
Qual è il mostro da domare oggi?Il sé, secondo me. Il mostro più difficile da domare, sfuggente e ingannevole. Questa è una lotta mai vinta, nella cui lotta dobbiamo costantemente rinnovare l’impegno. Si possono ottenere alcune vittorie qua e là, ma il mondo di oggi offre un ambiente che non favorisce battaglie di successo contro se stessi.
Forse una delle questioni importanti oggi sarebbe come sviluppare forme costituzionali di soggettività, attraverso le quali possiamo contenere e superare la tradizione del soggetto-padrone assoluto che sembra prevalere in Occidente e nei circoli delle élite colte e delle classi medie laiche Intorno al mondo. Forme costituzionali capaci di assimilare anche il futuro della negazione delle forme di soggettività, così come apparivano all’interno di dure tradizioni collettive come il comunismo e l’islamismo. La trasformazione del regime soggettivo in qualcosa di più collettivo è una questione determinante della lotta sociale, politica e intellettuale nel nostro mondo contemporaneo.
In Racconti da una Siria Dimenticata c’è un importante lavoro di riflessione sull’esperienza del tempo che ha il prigioniero, di un possibile tempo di recupero. C’è anche il lavoro di scrittura. Dici, ad esempio, che il rito della visita della famiglia è “un piolo a cui appendere la tenda del tempo” (p.55), un vaccino contro gli shock e le sorprese che possono ucciderti quando torni alla vita fuori. Nelle Lettere a Samira dici che solo la musica suonata in piazza Taksim può far rallentare le persone e rendere il posto più bello. Nel tuo modo di scrivere c’è una voglia di rallentare che sembra inseparabile dal piacere del pensiero.

Nello scrivere sono lento, contrariamente a quello che sono nella vita di tutti i giorni, almeno fin dall’adolescenza e soprattutto dal carcere. Continuo a ripetermi: calmati! Ma la velocità è il mio ritmo intimo e profondo. Mi accompagna al lavoro, mi accompagna a casa. In questo è l’opposto delle esperienze di disgiunzione che mi hanno forgiato e che inesorabilmente mi trascinano fuori di casa, verso mete lontane.
Scrivo le mie migliori bozze velocitemente. La bozza è quella che scrivo in un giorno o due. D’altra parte, lavoro poi sullo stesso materiale per settimane e mesi, o anche regolarmente per uno o due anni.

Da quando sono uscito di prigione, penso di abitare più nel tempo che nello spazio. Il luogo è diventato un ambiente sempre più passivo, mentre il tempo è attivo, intensamente presente. La passività del luogo è aumentata un po’ di più dopo il mio esilio dalla Siria, al punto che non riesco quasi a descrivere gli alloggi dove ho risieduto come uno straniero di passaggio che alloggia in camere d’albergo.
So che la vita nomade accessibile ai ceti alti e medi che lavorano nell’arte, nel mondo accademico e nella cultura, qui viene paragonata alla vita bohémien. Io stesso ho praticato questa itineranza un po’ da quando vivo fuori dalla Siria, e in particolare da quando ho ottenuto il passaporto a fine 2018. Questa esperienza rafforza un po’ di più il mio rapporto dilatato con il luogo, una sorta di transumanza moderna che riporta qualcosa del beduinismo dei miei antenati.
La prigione era il calvario della perdita di ogni intimità (forse tutta la vita personale), quella della vita all’aperto (Racconti da una Siria dimenticata, p.59). Dici di aver avuto spesso l’incubo di essere spogliato nudo in pubblico (p.28). Oggi ti schieri dalla parte di una certa esposizione morale, mostri la tua vulnerabilità. Questo cambiamento ha anche un significato politico: “la sofferenza è diventata pubblica e politica”, dici. La politica deve essere progettata in modo da generare la minor sofferenza possibile, e ciò che è “pubblico” deve essere “fatto dai vivi che hanno nomi, volti”.
Come siriano, non posso lamentarmi per la troppa esposizione o poca privacy. Il sistema assadista consiste nel ridurre i siriani a esseri “particolari”, negando loro ogni qualità di esseri politici, universali. La privazione della privacy in carcere trova la sua forma più terribile nella tortura che consegna il corpo a un omicidio legittimo (al-Istibaha), espropria l’individuo dal suo corpo, quindi prosegue fuori dal carcere con l’imposizione di un’intimità diffusa. Per preservare il tuo corpo, devi accettare che non sei altro che un corpo, un organismo vivente e nient’altro. O una vita nuda, per usare l’espressione di Agamben. In arabo, ci sono due parole per la vita. C’è la vita come forma organica, materiale, in un senso che si avvicina al greco “zoe”. Poi c’è quello nella sua forma più vicino al greco “bios”, qualcosa di più pieno, con dimensioni politiche e spirituali. O due vite, una specifica, l’altra universale. Di fronte alla rivoluzione siriana, i sostenitori del regime hanno brandito questo slogan: “Prima eravamo vivi! “, incolpando la rivoluzione del degrado della vita e la diffusione della morte . La verità è che eravamo davvero vivi, ma non stavamo vivendo. Da bambino, sentivo spesso le persone più povere intorno a noi dire “essere vivi per non essere morti”! La vita come morte sospesa non è una vita. Non è una vita come tale.
Gli unici siriani autorizzati a vivere, forse il 5-10% del paese, vivono un’esistenza assolutamente senza ostacoli, cosa che nemmeno gli individui di classe superiore in Europa e negli Stati Uniti sperimentano. Ma questa è libertà bestiale, non libertà umana. La libertà di chi considera il Paese come sua proprietà e si concede il diritto di goderselo senza limiti. Chi contesta muore. Questo riassume la storia della rivoluzione siriana: lo sterminio di chi non si accontentava più di essere vivo e vuole vivere.

Dall’inizio della rivoluzione siriana e ancor più dalla scomparsa di Samira, ho ricevuto in modo diverso lo slogan femminista, che dice che tutto ciò che è personale è politico. Non ho quasi nulla di mio che non sia stato oggetto di ogni tipo di intervento. Ma con la sconfitta della rivoluzione, l’universalità si è trasformata in nudità. Ma questa esposizione favorisce Istibaha, così come lo stato di Homo sacer.
Negli ultimi anni mi sono ritrovato più volte in una situazione ibrida, tra universalità e messa a nudo, accettazione e Istibaha, visibilità e vulnerabilità, due aspetti della politica, uno dei quali non si può evitare senza perdere l’altro. Ma il tempo di evitare è finito.
Tuttavia, c’è qualcosa di positivo in tutto questo. Senza essere una società, abbiamo comunque partecipato alla realizzazione di uno spazio pubblico, siriano, in esilio. Con questo intendo dire che i siriani sono attivamente preoccupati per gli affari pubblici, lavorano per costruire una causa siriana e si assumono il rischio di agire.
Alla fine, ciò che conta è che quello che uno di noi fa contribuisca alla costruzione di uno spazio pubblico in cui qualcun altro di noi possa trovare materiale da costruire a sua volta, e un altro ancora per ricominciare. . E ai miei occhi, vale la pena esporsi per dirigersi in questa direzione.
* Alaa Abdel Fattah, Non siamo ancora sconfitti: Scritti selezionati 2011-2019, Edizioni Fitzcarraldo, 2021 Nato al Cairo nel 1981, blogger e saggista, ha partecipato attivamente alla caduta del regime di Hosni Boubarak ed è un’icona di la rivoluzione del 2011. Molti di questi testi sono stati scritti in carcere.