Articolo di Marwan Safar Jalani. Pubblicato il 28 gennaio 2022 su The New York Times (Traduzione G.De Luca)
Meno di 10 anni fa, il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed, si espresse contro il regime del presidente siriano Bashar al-Assad per il massacro di civili.
A novembre lo abbracciò.
L’abbraccio – durante la prima visita di un funzionario degli Emirati a Damasco dallo scoppio della rivoluzione siriana – è sembrato una benedizione per le atrocità del regime di al-Assad e una pugnalata alle spalle per quelli come noi che hanno subito la guerra e lo sfollamento.
Sebbene molti di noi siriani abbiano assistito all’abbraccio con un senso di tradimento, non siamo rimasti sorpresi: è solo l’ultima di un’ondata di mosse internazionali per riabilitare le relazioni con il regime di al-Assad.
A giugno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammesso la Siria nel suo comitato esecutivo. L’Interpol ha riammesso la Siria nella sua rete in ottobre. Algeria ed Egitto hanno spinto per invitare nuovamente la Siria a far parte della Lega Araba e altre nazioni arabe hanno fatto cenno a un riavvicinamento con il signor al-Assad. E nel frattempo, le relazioni di al-Assad con l’Iran e la Russia sembrano essersi approfondite.
Questi organismi e nazioni internazionali sembrano aver perdonato, dimenticato o scelto di ignorare le ragioni per cui la Siria è stata espulsa dalla loro comunità. Ma così facendo, normalizzano le atrocità commesse da o per conto del regime di al-Assad e rischiano di incoraggiare altri leader ad agire senza timore di grandi censure o ritorsioni, come stiamo vedendo con il caso dei Rohingya in Myanmar e degli Uiguri nello Xinjiang.
Restituendo pericolosamente legittimità a un regime che le Nazioni Unite nel 2013 hanno collegato a crimini di guerra e crimini contro l’umanità contro il proprio popolo, la comunità internazionale sta infrangendo le norme e i costumi che tengono unito il nostro mondo. Le potenze occidentali e arabe devono mantenere il regime di al-Assad in isolamento e fare pressione su tutte le nazioni e organizzazioni che esitano a fare lo stesso.
Tutto questo iniziò molto tempo fa. Per almeno un breve periodo, il mondo sembrava essere dalla nostra parte.
Avevo 13 anni quando le proteste scoppiarono nel nostro quartiere orientale di Damasco, Al-Qaboun, nel 2011. Ricordo di essermi sentito fiducioso guardando i siriani chiedere un paese libero dalla famiglia al-Assad, che ci aveva governato per 40 anni. Quando il regime iniziò a reprimere violentemente i manifestanti, i paesi interruppero le relazioni con al-Assad e congelarono i beni del suo regime all’estero. La Lega Araba sospese l’adesione della Siria.
Ma presto divenne chiaro che il signor al-Assad era disposto a fare qualsiasi cosa per rimanere al potere. Poco è stato fatto per fermarlo al di là dell’imposizione di sanzioni e dell’armamento selettivo dei ribelli.
Nel mio quartiere, Al-Qaboun, ci sono stati pesanti combattimenti tra le forze ribelli e le truppe governative a metà del 2012. Gli elicotteri del governo lanciavano bombe nelle vicinanze, riducendo gli edifici e la nostra realtà in macerie. Temevamo che la nostra casa sarebbe stata la prossima.
Dopo essere sopravvissuti a un assedio di due mesi, io e la mia famiglia lasciammo il paese. Mettemmo in valigia i nostri ricordi, trascinandoli sull’asfalto rotto oltre i fori di proiettili freschi sui muri del nostro quartiere. Un anno dopo, secondo quanto riferito, il governo stava lanciando razzi contenenti testate chimiche sulla periferia di Damasco, incluso Jobar, a poche miglia da casa nostra.
Fu allora quando mi sentì tradito dalla famiglia al-Assad, che da tempo, ci era stato detto, fosse la protettrice della Siria. Ora, nove anni dopo essere fuggito da casa mia, mi sento tradito da una comunità internazionale che sta invitando il signor al-Assad a tornare tra loro.
La normalizzazione, tuttavia, ha implicazioni ben oltre i confini della Siria. Rimodella e riscrive gli standard internazionali su come gli attori statali possano trattare i propri cittadini.
Meccanismi di responsabilità come tribunali speciali e norme sulla punizione dei crimini contro l’umanità furono introdotti dopo la seconda guerra mondiale attraverso la firma nel 1945 della Carta di Londra, i processi di Norimberga e i tribunali speciali di Ruanda e Jugoslavia. Sono stati messi in atto per prevenire un altro omicidio di massa di civili, per mostrare a dittatori e criminali di guerra che non possono farla franca dopo aver commesso atrocità o usare gli eserciti statali per reprimere in modo letale e sistematico il dissenso.
Tuttavia, quanto accaduto in Siria mette in luce le profonde contraddizioni e le falle all’interno del sistema internazionale dei diritti umani.
Ci sono ampie prove che il regime di al-Assad abbia commesso crimini eclatanti, in particolare l’uso di armi chimiche. Solo quell’atto avrebbe richiesto l’intervento della comunità internazionale, seguendo il principio della responsabilità di proteggere delle Nazioni Unite. Ma i poteri di veto di Russia e Cina sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite gli hanno impedito di intervenire per salvare i siriani sotto i bombardamenti o porre fine allo spargimento di sangue in Siria.
Le recenti mosse degli Emirati Arabi Uniti e altri per normalizzare le relazioni con la Siria vanno ancora oltre. Dimostrano che con il passare del tempo, i dittatori saranno accolti di nuovo se soddisfano gli interessi nazionali dei paesi.
Le nazioni arabe potrebbero abbracciare il signor al-Assad per una serie di ragioni. Potrebbe essere un tentativo di contrastare l’influenza economica e politica dell’Iran nella regione. Oppure lo vedono come un male minore di fronte a gruppi militanti islamisti come l’ISIS. Oppure l’esitazione degli Stati Uniti a sostenere inequivocabilmente i suoi alleati autoritari sta spingendo i paesi del Golfo a cercare un terreno comune con altre potenze come la Russia filo-Assad. Oppure hanno deciso che le potenziali opportunità economiche, come investire nei progetti di ricostruzione della Siria, sono troppo grandi per rinunciarvi.
Ma i costi per legittimare un criminale di guerra accusato sono molto più alti di qualsiasi vantaggio economico o politico inverosimile.
Un regime noto
Il regime di al-Assad non ha mostrato la volontà di cambiare. Questo mese, nel primo processo al mondo che persegue la tortura praticata dallo stato in Siria, un tribunale tedesco ha condannato un ex ufficiale dei servizi segreti siriani per crimini contro l’umanità. Il regime continua ad essere accusato di violazioni dei diritti umani, anche contro i siriani che tornano nel Paese.
Gli organismi internazionali non devono dare nulla al signor al-Assad. Devono spingerlo a fermare le violazioni dei diritti umani. Devono sviluppare e applicare meccanismi, come il principio della “giurisdizione universale” – come ha fatto di recente la Germania nel caso storico – per cercare una qualche misura di giustizia.
Gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna sottolineano di essere contrari alla normalizzazione di al-Assad, ma evitano di esortare gli alleati e le organizzazioni internazionali a non farlo. Questa questione dovrebbe essere in cima alla loro agenda per quanto riguarda la politica estera, perché la riabilitazione di al-Assad rappresenta una minaccia diretta per l’ordine del secondo dopoguerra, che già deve affrontare sfide su altri fronti, come come le attuali tensioni Russia-Ucraina. È facile prendere posizione su questa situazione. La Siria non è piu la potenza nucleare o la potenza regionale che era una volta. Né è un importante fornitore di energia. Stare fermi contro la sua riabilitazione non costa molto.
Se i governi e le organizzazioni internazionali normalizzano le relazioni con il regime di al-Assad, la storia della Siria rischierebbe di replicarsi altrove e le rovine di Al-Qaboun rischierebbero di diventare la nuova norma.