I siriani muoiono nell’oscurità dei media occidentali

il

Di Muhammad Idrees Ahmad, pubblicato il 20 luglio 2021 su The New York Review

(Traduzione G.De Luca)

(In foto: Una vittima civile in una casa distrutta dai bombardamenti delle forze del regime di Assad e dei loro alleati sostenuti dall’Iran, nella provincia di Idlib, in Siria, 17 luglio 2021)

Quando il mondo ha smesso di prestare attenzione alla guerra civile siriana e ai suoi rifugiati, non è stato solo il regime a dare il benvenuto all’impunità. Anche il governo europeo ha accolto l’invito.

Lo scorso aprile, Akram Bathiesh, un rifugiato siriano di mezza età, è morto per un attacco di cuore in Danimarca, poco dopo essere stato informato dalle autorità che il suo status di asilo era stato revocato e che aveva un mese per andarsene. Il governo danese ha riesaminato lo status di cinquecento rifugiati siriani e Bathiesh era tra i 189 a cui era stato revocato l’asilo dall’estate scorsa, solo lo scorso marzo è stato revocato a 94 siriani. Tra le altre persone c’era una nonna siro-palestinese di nome Rihab Kassem, originaria del campo profughi di Yarmouk a Damasco, il cui figlio Waled è residente danese da venticinque anni; e Aya Abu Daher, una studentessa delle superiori, ora diciannovenne, che ha conquistato i titoli dei giornali dopo aver fatto un appello televisivo al governo. “Tutta la mia vita è qui”, ha detto in un danese fluente. “Come posso tornare in Siria adesso?”

Nel corso della guerra, la Danimarca ha concesso asilo a circa 32mila siriani. Ora, tuttavia, senza che nulla sia cambiato riguardo le minacce che hanno costretto alla fuga quei rifugiati, il governo danese sta adottando un nuovo, rigoroso, approccio, con i socialdemocratici al governo che promettono una politica di “zero richiedenti asilo”. La logica delle autorità danesi riguardo l’immigrazione per il rimpatrio dei rifugiati – o “refoulement”, il termine esatto – è che “le condizioni a Damasco … non sono più così gravi da giustificare la concessione o l’estensione dei permessi di soggiorno temporanei”. Da quando è salito al potere lo scorso anno, il governo del Primo Ministro Mette Frederiksen ha ampliato la portata di questa determinazione, designando l’intero governatorato intorno alla città una zona sicura. Il ministro dell’Integrazione danese, Mattias Tesfaye, ex comunista e figlio di un immigrato etiope, è stato irremovibile nel respingere la richiesta del liceale siriano. “Non mi tirerò indietro”, ha detto, “non accadrà”.

Le dichiarazioni ipocrite del governo suggeriscono che la Danimarca non si accontenta di rimandare i rifugiati verso possibili persecuzioni, torture o morte; vuole anche affermare che sta facendo la cosa giusta. A titolo di giustificazione, definisce la sicurezza come assenza di combattimenti nel territorio sotto il controllo del regime.

L’insicurezza in Siria, tuttavia, ha preceduto lo scoppio della guerra civile ed è continuata durante il conflitto. In effetti, è stato il dominio del terrore del regime di Assad a innescare la rivolta in primo luogo. L’unica cosa che la guerra ha fatto è stata rendere palese la violenza e mettere a nudo il macabro apparato di controllo del governo di Damasco. Gli orrori delle prigioni del regime, che erano fin troppo familiari ai siriani, sono diventati noti al mondo intero. Eppure l’attenzione globale non ha implicato alcuna responsabilità. Le carceri sono rimaste pienamente operative, tranne che il regime ora le gestisce con assoluta fiducia nell’impunità.

È inconcepibile pensare che la minaccia del regime nei confronti dei propri cittadini sia diminuita nel governatorato di Damasco. All’inizio del conflitto, nel 2012, un rapporto di Human Rights Watch ha rivelato che dei ventisette centri di detenzione che compongono l'”arcipelago delle torture” siriano, dieci si trovavano nella capitale stessa. Nel 2014, quando un disertore siriano con nome in codice “Caesar” – che era stato un fotografo forense ufficiale per la polizia militare – ha condiviso 53.275 foto che documentano la morte di 6.786 detenuti sotto tortura, la scoperta più scioccante è stata che molti di questi corpi erano stati scaricati nel cortile dell’Ospedale Militare 601, a solo mezzo miglio dal palazzo presidenziale di Damasco.

Le prove sugli ossari siriani sono aumentate.  Secondo un’indagine di Amnesty International del 2017, tra settembre 2011 e dicembre 2015, il regime ha giustiziato fino a 13.000 oppositori politici nella sua prigione militare di Sednaya, tra cui “dimostranti, dissidenti politici di lunga data, difensori dei diritti umani, giornalisti, medici, operatori umanitari e studenti”.  In un’indagine del New York Times del 2019 sul gulag di tortura di Bashar al-Assad, Anne Barnard ha riferito che quasi 128.000 detenuti erano scomparsi nelle segrete della Siria nel corso della guerra.  Le detenzioni e le sparizioni sono continuate, con la Rete siriana per i diritti umani che ha segnalato 972 arresti arbitrari solo nella prima metà del 2021.

(In foto: Cartelli fuori dall’ambasciata danese per protestare contro la politica del paese di rimpatrio dei rifugiati siriani, Dublino, Irlanda, 4 giugno 2021)

La fiducia del governo danese nelle sue dichiarazioni deve molto al vuoto di tali informazioni,se escludiamo il mondo delle ONG, reso possibile dalla virtuale assenza della Siria dai media occidentali negli ultimi mesi.  Gran parte della Siria, comprese le cinque città più grandi del paese, è tornata sotto al controllo del regime.  Il nord-est, che comprende il 70% delle riserve petrolifere della Siria, è sotto il controllo delle Forze democratiche siriane a guida curda (SDF), mentre la Turchia si è ritagliata una zona cuscinetto nel nord, dove governa attraverso i delegati siriani.  La maggior parte degli sfollati siriani che rimangono nel paese, che sono più di quattro milioni di persone, sono schiacciati nella provincia di Idlib che il regime deve ancora riconquistare.  Il fatto che questa enclave sia controllata dal gruppo islamista intransigente Hay’at Tahrir al-Sham mette i suoi civili doppiamente a rischio: vivendo costantemente sotto la minaccia di nuovi combattimenti, subiscono il dominio arbitrario di questi estremisti armati.

Sebbene un accordo di cessate il fuoco del 2018 tra Russia e Turchia avrebbe dovuto portare la pace a Idlib, le forze del regime hanno continuato la loro guerra di logoramento contro le aree controllate dai ribelli, sebbene i loro attacchi siano calibrati a un livello inferiore alla soglia dell’interesse delle notizie internazionali.  La stanchezza occidentale per la storia ha alterato quel calcolo: nel dicembre 2019, la stampa straniera ha ampiamente trascurato la grande offensiva delle forze del regime per riconquistare Idlib.  L’operazione sembrava sull’orlo del successo fino a quando la Russia non ha esagerato e ha ucciso trentasei soldati turchi.  Incapace di affrontare direttamente la Russia, la Turchia ha invece scatenato un’offensiva fulminea contro le forze del regime siriano, uccidendo quasi duecento soldati e miliziani, distruggendo nel frattempo una parte significativa dell’arsenale militare del regime di Damasco.  La ferocia della rappresaglia turca ha fermato l’offensiva del regime e ha avuto l’effetto di una tregua limitata per maggioranza dei rifugiati di Idlib.

Nella misura in cui questo conflitto tra  potenze regionali riceveva un’attenzione esterna, i civili, che si trovavano nel mezzo rimanevano invisibili.  La Siria aveva maggiore attenzione quando sembrava una storia più promettente, e in particolare quando gli eventi si erano allineati con le preoccupazioni americane.  In Occidente, la Siria è stata prima una storia relazionata con la Primavera Araba, poi è diventata una storia di armi chimiche, poi una storia dell’ISIS, poi una storia di rifugiati, poi una storia di rivalità tra grandi potenze.  Ma una volta che lo Stato Islamico è stato sconfitto e la Siria è stata ceduta in silenzio a Russia e Turchia, è diventata una non storia.  E nonostante la copertura sporadica di atrocità come il deliberato bombardamento di ospedali nelle aree controllate dall’opposizione, la violenza quotidiana del regime nei confronti dei propri cittadini non è mai stata una grande preoccupazione per la stampa internazionale.

Un’analisi di Google Trends mostra che nei dieci anni di guerra in Siria contro i civili, il volume di notizie al riguardo è rimasto in gran parte basso, tranne per una manciata di picchi.  Di questi, tre riguardavano attacchi con armi chimiche in Siria: un uso di armi vietate che il presidente Obama una volta dichiarò sarebbe stata una “linea rossa” che avrebbe innescato l’intervento degli Stati Uniti.  Nel 2019, secondo il Global Public Policy Institute, c’erano stati 336 attacchi chimici in Siria, di cui il 98 per cento effettuati dal regime, il resto dal cosiddetto Stato islamico.  Gli incidenti che hanno attirato l’attenzione dei media occidentali, tuttavia, sono stati solo quelli in cui gli Stati Uniti si sono vendicati o hanno considerato un’azione militare.

Alcuni di questi sviluppi, come l’attacco chimico dell’agosto 2013 o l’entrata in guerra della Russia, sono stati eventi importanti nella sanguinosa guerra siriana, ma altri che hanno portato a  ben più tragiche conseguenze per i siriani hanno ricevuto a malapena attenzione.  Il volume delle notizie è aumentato solo leggermente durante l’estate del 2012, quando il regime ha compiuto una serie di massacri settari e ha iniziato a usare la forza aerea contro le città (in particolare, barili bomba sganciati da elicotteri);  in realtà è diminuito dopo che Obama si è ritirato dalla sua linea rossa e il regime ha intensificato la sua violenza.  Nel 2016 è aumentato di nuovo, anche se marginalmente, con l’escalation della crisi ad Aleppo, ma dopo l’attacco chimico dell’aprile 2017 e gli attacchi aerei statunitensi, è diminuito.  Da allora, l’interesse internazionale è diminuito.

Che gli eventi in Siria siano stati presi in considerazione  solo quando si sono intersecati con gli interessi occidentali risulta evidente anche dalla copertura sorprendentemente diversa della fuga della popolazione nel 2015 rispetto a quella del 2019. I siriani erano fuggiti in gran numero dal loro paese dall’autunno del 2013, poiché il  regime aveva usato la sua ritrovata impunità dopo il fiasco della linea rossa per intensificare la violenza , ma con la combinazione dell’ascesa dello Stato Islamico e dell’entrata in guerra della Russia nel 2015, questo si è trasformato in un esodo di massa.  Mentre fino ad allora i siriani si erano rifugiati principalmente in Turchia, Libano, Giordania e Iraq, alcuni hanno iniziato a farsi strada in Europa. In questo momento è stata dichiarata una “crisi dei rifugiati”.  Nel settembre 2015, la foto del corpo annegato del piccolo Aylan Kurdi raccolto su una spiaggia turca ha cambiato la portata e il tono della copertura mediatica occidentale tanto da spingere il cancelliere tedesco Angela Merkel a concedere asilo a una vasta popolazione di rifugiati, un esempio che molti altri europei  stati, tra cui la Danimarca, e il Canada, seguirono su scala minore.

L’offensiva del dicembre 2019 che il regime di Damasco e la Russia avevano avviato per riprendere Idlib, nel febbraio 2020 aveva cacciato quasi un milione di persone in più dalle loro case.  Questo è stato il più grande spostamento singolo del conflitto, ma è stato praticamente non segnalato in Occidente perché lo spostamento stava avvenendo all’interno della Siria.  La situazione è cambiata quando la Turchia, che ospitava già 3,7 milioni di rifugiati siriani, ha annunciato che non avrebbe più impedito ai rifugiati di entrare in Europa.  La copertura successiva, tuttavia, si è concentrata non sui rifugiati ma sulla perfidia e il cinismo turchi.

Quando i media occidentali, che hanno un certo impegno per l’accuratezza e l’obiettività, vanno avanti, o quando non riescono ad amplificare le voci locali con una conoscenza diretta della situazione, lasciano un vuoto di informazioni.  Nel caso della Siria, questo è riempito dai media russi e iraniani, la cui copertura è di natura completamente diversa. Il loro obiettivo non sono i fatti ma sostenere le narrazioni approvate dallo stato, loro offuscano informazioni.  Se riescono a creare incertezza sui grandi eventi, come gli attacchi con armi chimiche, possono mettere in dubbio tutto ciò che riguarda il conflitto.  Il diluvio di disinformazione prodotto da diffusione di notizie ufficiali da parte di Russia Today, echeggiato da fronti di propaganda di stato come Sputnik e amplificato da eserciti di troll, manda gli account negazionisti in cima alle ricerche di Google, YouTube e Twitter.

Questa impressione di una realtà irrimediabilmente contestata e quindi inconoscibile è strategica.  È progettato per interrompere un’apprensione accurata del fatto che la guerra civile siriana è probabilmente il conflitto meglio documentato della storia.  Molte cose del conflitto sono complicate, ma è incontestabile che il regime siriano sia stato il principale responsabile delle violenze contro i civili e che abbia agito come tale in modo sostenuto, sistematico e deliberato.  C’è un consenso schiacciante tra gli investigatori sui crimini di guerra, i gruppi per i diritti umani e le agenzie di monitoraggio su questo punto.  In effetti, secondo l’avvocato americano ed ex procuratore per crimini di guerra Stephen Rapp, le prove accumulate contro il regime siriano sono più ampie di quelle che avevano gli Alleati per ottenere condanne contro i leader nazisti al tribunale di Norimberga.

Eppure la questione ha poca presa sul pubblico negli Stati Uniti e in Europa, in parte a causa della scarsità di copertura, un vuoto che è stato riempito dalla disinformazione, e in parte a causa di una generale indifferenza verso la Siria tra i leader occidentali, nonostante le catastrofiche conseguenze della guerra.  Mentre i media occidentali sono andati avanti, i media statali russi e iraniani e i loro vari ausiliari hanno condotto un’offensiva di propaganda implacabile, concentrandosi in particolare sui principali attacchi chimici a cui i media occidentali hanno prestato attenzione.  Nel tentativo di oscurare la responsabilità del regime, questi organi e agenti hanno diretto la loro campagna di disinformazione e diffamazione contro i testimoni e i sopravvissuti, le organizzazioni che hanno documentato gli attacchi (come i soccorritori volontari e i medici dei Caschi Bianchi) e gli scienziati che hanno indagato  e convalidato le prove (come l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche).  Lo spettro dell’Iraq viene continuamente sollevato per suggerire che le accuse sull’uso di armi chimiche da parte del regime siriano non sono più credibili di quanto lo fossero le informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che gli Stati Uniti hanno usato per giustificare l’invasione del 2003.  L’obiettivo non è tanto quello di presentare una contro-narrazione plausibile quanto di infittire la nebbia della guerra.  La fabbricazione del dubbio, trasformando i noti in sconosciuti, si è dimostrata efficace, lasciando confuse sempre più persone in Occidente, rendendole riluttanti a schierarsi.

Negli anni ’90, sulla scia della Guerra del Golfo, tra gli accademici infuriò un dibattito sulla capacità dei media di suscitare il sentimento pubblico e influenzare la politica.  Il cosiddetto effetto CNN era la testimonianza del presunto potere degli allora nuovi canali di notizie via cavo 24 ore su 24 per ispirare l’azione umanitaria.  Ma l’effetto si è rivelato un mito e la Siria ha risolto il dibattito.  Quando i leader sono impegnati nell’inazione, a causa dei rischi percepiti, dell’assenza di interesse strategico o della paura dell’opposizione interna, nessuna quantità di storie di atrocità li spingerà all’azione.

Dove c’è un genuino interesse tra i leader,  una storia diventa degna di nota per i media, rendendo i dirigenti disposti a impegnare risorse per coprirla.  Ma senza la possibilità di un risarcimento umanitario, senza una narrativa di correzione del torto, l’esposizione a tale copertura del conflitto crea semplicemente un senso di impotenza nel tempo.  E man mano che la scala della sofferenza aumenta, l’empatia paradossalmente diminuisce.  Gli psicologi Daniel Västfjäll e Paul Slovic ed i loro colleghi hanno notato che la compassione per un singolo individuo identificato può essere naturale, ma è difficile “scalare” questa emozione.  “Un tale sbiadimento della compassione ha il potenziale per ostacolare in modo significativo le risposte individuali e collettive (ad esempio politiche) a crisi urgenti su larga scala, come il genocidio o la fame di massa o il grave degrado ambientale”, scrivono.  L’inazione collettiva genera apatia individuale, e l’apatia diventa non solo indifferenza, ma avversione.  Le persone sviluppano un bisogno psichico di sintonizzarsi.

Le organizzazioni giornalistiche, a loro volta, evitano di dedicare risorse a una storia per la quale non c’è pubblico.  L’interesse per la Siria è diminuito anche perché la storia ha perso la sua novità, la sua capacità di scioccare.  Il primo massacro in Siria ha inorridito le persone, il secondo meno, e il valore dello shock è diminuito con ogni successiva atrocità fino a crollare del tutto.  Dopo che il regime ha torturato a morte un bambino e ha restituito il suo corpo ai suoi genitori con i genitali recisi, come ha fatto a Hamza al Kahtib nel 2011, dopo aver mandato dei sicari a sgozzare 49 bambini, come ha fatto a Houla nel 2012, dopo aver gasato a morte 426 bambini con il sarin, come ha fatto nella Ghouta orientale nel 2013, dopo aver usar il napalm conteo le scuole, come ha fatto ad Aleppo nel 2013, dopo aver fatto morire di fame i bambini, come ha fatto a Yarmouk e Madaya nel 2014-2016  , dopo aver bombardato gli ospedali, come ha fatto in 541 diverse occasioni durante la guerra, nessun crimine sembrava troppo inimmaginabile per il regime.  Gli spettatori occidentali volevano distogliere lo sguardo: quando l’indignazione non ha esito, subentra la stanchezza dell’orrore.

(In foto: Parenti di un membro del servizio di protezione civile siriana (Caschi Bianchi) in lutto sul corpo di un fotografo volontario, ucciso nel bombardamento del regime nella provincia di Idlib, in Siria, in mano ai ribelli, 17 luglio 2021)

Per essere chiari, la Siria è un fallimento morale in cui i leader occidentali sono più complici della stampa. I giornalisti, infatti, hanno spesso svolto un lavoro ammirevole e alcuni dei migliori servizi durante la guerra sono arrivati ​​dagli stessi giornalisti siriani, anche se poche di queste voci sono state amplificate dai media occidentali. Ma tali resoconti non sono riusciti a ispirare l’Occidente nel mettere in atto alcuna azione collettiva per proteggere i vulnerabili della Siria. L’imperativo istituzionale tra i responsabili politici potrebbe essere quello di andare avanti, ma questo silenzio ha conseguenze per il popolo siriano. Con la scomparsa dei riflettori dell’attenzione dei media occidentali, l’oscurità è scesa sulla Siria. Sotto il suo mantello, le atrocità e gli abusi sono diventati banali.

Eppure, anche adesso, niente di tutto questo è inevitabile.  I leader politici hanno ancora l’opportunità di riaccendere l’orrore pubblico per le gravi ingiustizie.  La Russia minacciava da mesi di porre il veto al mandato delle Nazioni Unite per gli aiuti umanitari transfrontalieri ai siriani intrappolati a Idlib quando, a seguito di determinate pressioni di gruppi non governativi, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha parlato della situazione in una sede di sicurezza delle Nazioni Unite durante il  Consiglio di marzo.  Con il tipo di fermezza e chiarezza morale rari in quel forum, ha denunciato le restrizioni alla fornitura di aiuti poste da Russia e Cina come “ingiustificate, inefficaci, indifendibili” e ha chiesto “usando qualsiasi via sia il modo più sicuro e più rapido per  raggiungere le persone che soffrono la fame e muoiono per  il bisogno di medicine”.  Ha anche condannato il rimpatrio forzato dei rifugiati, l’azione stessa che la Danimarca, per esempio, sta intraprendendo.  “Non facciamo pressione sui rifugiati siriani perché tornino finché non sentano di poterlo fare in sicurezza e dignità”, ha detto, e ha continuato esortando i suoi colleghi a “smettere di considerare il fatto di fornire assistenza umanitaria, da cui dipende la vita di milioni di siriani, come una questione politica, aspettando nella speranza il Consiglio di Sicurezza… Fermiamo l’attesa.  Agiamo.  Aiutiamo le persone in Siria”.

Eloquenti e appassionate, queste parole hanno ricordato il discorso che il suo predecessore John Kerry aveva fatto dopo l’attacco chimico dell’agosto 2013, argomentando a favore di un’azione collettiva contro Assad:

“Amici miei, qui importa se non si fa nulla.  Importa se il mondo parla, condanna e poi non succede nulla… La fatica non ci assolve dalle nostre responsabilità.  Il solo desiderio di pace non la determina necessariamente.  E la storia ci giudicherebbe tutti severamente se chiudessimo un occhio sull’uso sfrenato da parte di un dittatore di armi di distruzione di massa contro tutti gli avvertimenti, contro ogni comune comprensione della decenza.”

Kerry stava giocando dando man forte.  La deterrenza non era ancora persa e la Russia non era ancora intervenuta, non direttamente, almeno.  Eppure Assad è rimasto impunito e i suoi sponsor sono stati incoraggiati.  Le opzioni del segretario Blinken, al contrario, sono limitate, ma almeno è riuscito a ottenere il rinnovo del mandato per gli aiuti transfrontalieri per altri sei mesi.  L’incertezza rimane, ma c’è molto che l’amministrazione Biden può fare per migliorare le conseguenze dell’inazione passata.  Può garantire aiuti, reinsediare più rifugiati e scoraggiare gli alleati europei dal costringere i richiedenti asilo a un rimpatrio potenzialmente letale.

Tuttavia, nulla di tutto ciò accadrà, a meno che il mondo non rinnovi la sua attenzione.  Da questo, per molti siriani, può dipendere la differenza tra la vita e la morte.

Non è una proposta astratta.  Il 15 luglio, dopo una campagna globale guidata da attivisti e sostenuta da organizzazioni per i diritti umani, il governo danese si è ritirato e ha ripristinato lo status di residenza di Aya Abu Daher.  Lo stesso giorno, lontano dagli occhi attenti dei media occidentali, le forze del regime sostenute dall’aviazione russa hanno colpito Idlib.  Quattordici civili sono stati uccisi, quattro dei quali bambini.


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