Articolo pubblicato il 14 giugno 2020 su L’Orient-Le jour
Traduzione di Giovanna De Luca
(Foto AFP / LOUAI BESHARA)
“Nulla cambierà, la guerra continuerà”, deplora il 56enne aleppino, uno degli scrittori più noti in Siria.
Per i siriani isolati dalla guerra, la pandemia del Covid-19 è stato un momento di unione con il resto del mondo e le sue preoccupazioni, secondo il romanziere Khaled Khalifa, che tuttavia ritiene che, come sempre, i suoi compatrioti non sono e non saranno ascoltati.
Nella sua casa di Damasco, il 56enne di Aleppo, uno dei più noti scrittori in Siria e autore di tre opere tradotte in francese (tra le quali “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città”), evoca le sofferenze della guerra e si interroga sui problemi del mondo di domani.
Che impatto ha la pandemia sui siriani?
Durante gli anni della guerra, i siriani erano preoccupati per il loro mondo, il mondo della morte quotidiana. Oggi, la loro tragedia fa parte del dramma di tutta l’umanità. Hanno condiviso con il mondo il significato di morte e paura. Forse per la prima volta, i siriani sentono di far parte di questa umanità.
Nonostante ciò, siamo rimasti in disparte. I nostri problemi non interessano nessuno. Oggi il mondo è assorbito dal coronavirus e non è in grado di ascoltare i siriani. Domani ci saranno altri motivi per cui non sarà in grado di ascoltarci. Quindi nulla cambierà, la guerra continuerà.
Come vivere la pandemia di coronavirus in un paese in guerra?
Il timore dei siriani per il coronavirus è stato minimo perché erano già nella palude della morte e non ne sono ancora usciti. Ma il virus ha aggiunto nuove difficoltà. Tutte le questioni riguardanti i siriani rimangono problemi attuali, lo erano prima del coronavirus, durante e lo saranno dopo. Viviamo in un tunnel di attesa. In ogni caso, è impossibile paragonare il coronavirus alla guerra. Sarebbe sottovalutare l’impatto del conflitto su milioni di persone. Non si può immaginare la crudeltà della guerra siriana. È un grande flagello umanitario, dieci anni di tumulti per un vasto gruppo di esseri umani. L’evento siriano rimane unico per il dolore collettivo che produce.
Quale mondo dopo il coronavirus?
Il mondo rimarrà barbaro come lo era prima (…) sarà più bruto, non avrà imparato nulla da quest’ultimo avvertimento che conferma che non possiamo affrontare la natura. Nella battaglia del coronavirus, la natura non è il nemico, ma una parte attaccata. Tutto ciò che fa è cercare di difendersi (…) da un terremoto, un virus, ecc. L’aggressore sono le grandi aziende che spazzano via tutti i principi in nome del profitto. Le terze parti, colpite dalla natura, sono persone che vogliono una vita segnata da più umanesimo (…).
Sono trent’anni che non sentiamo un solo politico dire “tali sono i nostri valori”, tutti hanno detto “tali sono i nostri interessi” (…). Nelle storie realistiche, il bene non è vittorioso, è sempre il male che purtroppo vince. Questa volta non dobbiamo lasciarlo vincere, perché è chiaro che la battaglia finale si gioca qui. Abbiamo bisogno di un dibattito su scala planetaria, guidato da coloro che sono interessati al destino dell’umanità, con la partecipazione di scienziati, artisti, giornalisti, scrittori e operai, in grado (…) di riflettere collettivamente sul futuro del mondo.
Come ti ha colpito l’epidemia?
“Il coronavirus mi ha dato il diritto a un’immaginazione più sfrenata. Qualche anno fa, quando volevo scrivere qualcosa che fosse tinto dall’immaginazione, temevo non fosse credibile. Oggi tutto può essere credibile perché non avresti mai potuto immaginare quello che poi è successo. Il virus mi ha fatto pensare e mi sono fatto domande alle cui non abbiamo mai risposto: perché questi uomini sono arrivati a questo livello di egoismo “Perché tutta questa produzione e questo spreco di risorse? Perché questa mancanza di giustizia? Perché gli assassini vivono protetti dai proprietari di banche e grandi aziende? Siamo in grado di produrre un futuro più umanista e meno criminale?”