
Scritto da Marcelle Shehwaro, tradotto da Francesca Scalinci e Piero Maestri
All’interno della Siria, dalla repressione sono emerse voci politiche. Fuori, queste voci resistono all’appropriazione.
Quando è stato il mio primo tentativo di rivendicare una voce e qual’è stata la voce che ha tentato di silenziare la mia?
La messa a tacere è iniziata nella mia scuola di Aleppo? Quando ero obbligata a memorizzare e a credere in qualunque cosa dicesse il nostro “leader eterno”?
Alcune forme di silenziamento hanno lasciato un segno sulla mia voce, altre hanno fatto di me una persona con una voce più forte.
“Vedo vita nello sport”
“إني أرى في الرياضة حيا
Ricordo il mio insegnante che scriveva alla lavagna: “Vedo vita nello sport”. Era solo un’altra citazione del nostro leader Hafez al-Assad. Non sapevo cosa ci fosse di speciale in questo motto, ma sapevo che era speciale a prescindere. La foto di Hafez (e in seguito quella di suo figlio) era appesa in ogni aula scolastica in Siria, e decorava quaderni e pagelle. Ogni studente imparava a memoria i discorsi di Hafez come parte del programma di “Nazionalismo”. Per la paura di dimenticarli durante le verifiche, cercavo di metterli in rima con le parole di canzoni famose.
Superai un anno dopo l’altro a pieni voti, imparando a memoria le sue vittorie, i suoi discorsi e, naturalmente, la sua saggezza.
In quarta elementare, un insegnante entrò in classe e ci chiese di compilare un modulo per aderire al partito Ba’ath. Non sapevo cosa significasse far parte di un partito politico. Nessuno nel partito pareva interessato. Se la tua famiglia non voleva che aderissi al partito, il preside ti portava nella “stanza privata” per porti domande su ciò che pensavano i tuoi genitori.
Io non volevo andare nella stanza privata. Non sapevo cosa pensassero i miei genitori. Nessuno in classe osava dire di no. Così accadde che divenni un membro ufficiale del partito al governo.
Nel cortile della scuola, quando l’insegnante gridava: “Chi è il nostro leader eterno?”, dovevamo urlare in risposta: “Hafez al-Assad”.
L’unica politica che ho sperimentato da bambina siriana è stata la lealtà a qualcuno. L’unica voce consentita era la voce del dittatore.
Ma forse il silenzio era cominciato anche prima. Forse era cominciato con la paura e l’obbedienza instillate in ogni famiglia siriana. Forse questa era la nostra eredità.
“I muri hanno orecchie”
الحيطان إلها آذان
Prima di preparare i cestini per il pranzo con i panini allo za’atar e cetriolo, i genitori siriani ripetevano ai loro figli: “I muri hanno orecchie”. Questo era il loro modo di introdurci alle forze di sicurezza, al loro modo di codificare il linguaggio e di avvertirci del pericolo che correvamo di “andare dietro il sole”, parole in codice che significavano essere arrestato e sparire per sempre nelle camere di tortura.
Crescendo ad Aleppo, non ho mai discusso della costituzione ne mai votato per alcuno, anche se naturalmente venivo conteggiata nel 99% di persone che eleggevano il presidente. Gli unici nomi che conoscevo nel governo erano quelli degli ufficiali della famiglia del presidente.
Avevo all’incirca 20 anni quando mi imbattei accidentalmente in un forum politico su internet. Non riuscii a dormire. Pensavo che sicuramente le forze di sicurezza sapevano che avevo letto le discussioni su quel forum. Sanno tutto, conoscono tutto e ora stanno venendo a prendermi, pensai. Non so come sapessi di dover avere paura ma la paura era il sentimento più onesto che avevo nei confronti dello stato siriano. La paura che provai quella notte, l’idea che “loro” mi prendessero e mi portassero in un luogo oscuro e sconosciuto solo per aver letto alcune discussioni politiche su internet, mi fecero comprendere che non ero così apolitica come sostenevo. Ero solo spaventata. Ero nata in gabbia e questo era tutto ciò che avevo conosciuto. La gente veniva arrestata per aver pulito le strade senza il permesso della sicurezza, un permesso impossibile da ottenere. Non osavamo confessare a nessuno le nostre idee perché non sapevamo di chi poterci fidare.
La paura era la radice della mia politica.
Non so se la mia generazione abbia scelto di essere impegnata politicamente o se sia la politica ad averci trovato. Su internet imparammo ad utilizzare nomi falsi per paura, non per coraggio. L’oppressione ci fornì strumenti di resistenza. Imparammo a sbloccare qualunque sito internet, perché anche Facebook era stato bloccato. Non è che volessimo sfidare il sistema totalitario, perché il sistema totalitario era intrecciato ad ogni aspetto della nostra vita.
Alcuni di noi hanno lasciato la Siria, molti hanno sognato di farlo.
Coloro di noi che sono rimasti trovarono, per la prima volta, speranza nella rivoluzione tunisina e in quella egiziana del 2011. In Siria trovammo la nostra voce mentre in Piazza Tahrir si cantava:
“Il popolo vuole la caduta del regime”
الشعب يريد إسقاط النظام
Nel Paese in cui “i muri hanno orecchie”, le strade parlavano finalmente a voce alta. Col braccio appoggiato sulla spalla di una sconosciuta, il suo a sua volta sulla mia spalla, oscillavamo cantando: “Liberi, liberi, vogliamo libertà! Che lo accetti o no, Bashar, otterremo la nostra libertà!”
Circondati da migliaia di persone, in pubblico, senza nasconderci, reclamavamo i nostri diritti, quelli che sapevamo la dittatura di Assad ci aveva tolto e quelli che sapevamo di non avere.
Chiedevamo l’abrogazione della legge di emergenza che governava la Siria dal 1962 e che restringeva la libertà di movimento, proibiva i raduni pubblici e permetteva al mukhabarat, le forze di sicurezza, di arrestare e censurare tutto e tutti. Chiedevamo libertà di stampa e partiti politici. La strada era nostra ed è lì che, per la prima volta nella storia siriana recente, portammo dibattiti politici e idee.
Parlavamo del tipo di costituzione che volevamo, di come potessimo mantenere il movimento non violento o dell’efficacia di uno sciopero universitario. Imparammo di più del nostro stesso razzismo e classismo. Conobbi i problemi sociali che i media ufficiali affermavano che non avevamo, come l’analfabetismo e i matrimoni precoci. Per la prima volta, imparai la storia della mia città, Aleppo. Ascoltammo le madri i cui figli e i cui mariti erano scomparsi negli anni ottanta. Per la prima volta, poterono raccontare le loro storie. Per la prima volta, siamo stati capaci di chiedere loro perdono della nostra ignoranza.
Ci facemmo largo attraverso un silenzio colmo di paura. La vita pubblica era di nuovo pubblica. Ci incontravamo, ci fidavamo gli uni degli altri e incontravamo il nostro Paese.
Tuttavia Bashar al-Assad, il nostro cosiddetto “nuovo e moderno” presidente, ci accusò di essere stati corrotti dall’Occidente e diede il via libera alla risposta violenta nei confronti dei manifestanti.
“Volete la libertà, no?”
“بدكن حرية، ولا ؟”
Nel marzo del 2012, alla protesta organizzata per celebrare il primo anniversario della rivoluzione siriana, vidi coi miei occhi uno shabbiha, un membro delle milizie supportate dal regime, intonare il famoso slogan – “Volete la libertà, no?” – mentre colpiva in testa un uomo con un’enorme mazza di legno ricoperta di chiodi. Rimasi impietrita di fronte al sangue che colava dalla testa di quell’uomo.
Se in Siria vogliamo la libertà, l’unica risposta che avremo sarà la violenza. E più ardentemente la vogliamo, più sangue questa ci costerà.
La frase – “Volete la libertà, no?” – insieme all’atteggiamento di scorno usato nel chiamare i manifestanti “la gente della libertà”, era parte della mentalità di sicurezza che aveva lo scopo di ridurre ancora una volta l’opinione pubblica al silenzio. Le forze di sicurezza non riuscivano a comprendere come la generazione che avevano sottomesso alla censura totale fosse in grado di mettere in dubbio la loro autorità. Non capivano perché, quando parlavamo della Siria, non sussurrassimo, non capivano come potessimo parlare della Siria affatto. Ci obbligavano a obbedire o facevano in modo che la punizione fosse resa il più possibile pubblica, così che le generazioni future si sarebbero sempre ricordate del prezzo da pagare per il fatto di possedere una voce. Quando gli arresti non bastarono più per ridurci al silenzio, il regime passò alla guerra.
Uno alla volta, io e i miei amici fummo convocati per essere interrogati dalle forze di sicurezza e dovemmo fuggire dall’altra parte della città, ad Aleppo est, dove vivemmo sotto nuovi livelli di violenza e dove le nostre neonate voci politiche furono obbligate a prendere la forma della sopravvivenza.
“Assad o bruciamo il Paese”
“الأسد أو نحرق البلد”
In arabo, quest’orribile promessa contiene una rima: “al-Assad ‘aw nahruq al-balad”. Era la promessa utilizzata dalle milizie pro-Assad fin dai primi giorni della rivoluzione siriana: la dittatura o la distruzione.
Non appena cominciarono le proteste, l’esercito siriano cominciò ad assediare e bombardare diverse città; fu così che alcuni siriani presero le armi per difendere I loro quartieri. Le discussioni tra I difensori dei diritti umani e gli attivisti passarono dall’essere incentrate sull’obiettivo di un futuro democratico alla risposta all’emergenza.
Il mio gruppo di amici, che era cominciato come unità di coordinamento delle proteste, e che si riuniva in segreto per discutere del futuro della Siria, doveva ora affrontare la realtà quotidiana di trovare una casa al sicuro dai bombardamenti. Il dialogo sul futuro fu sempre più incentrato su come potevamo aiutare i bambini che all’improvviso vivevano nel pericolo e senza scuole. Istituimmo la nostra prima scuola e dovemmo imparare a gestirla. Altri aprirono ospedali e offrirono interventi di primo soccorso.
La guerra ha costretto le priorità politiche ad assumere un ruolo marginale. La sopravvivenza è diventata il nostro obiettivo principale, la logistica una distrazione schiacciante. Anche coloro che cercavano di portare avanti le richieste politiche venivano ostacolati dai crescenti bisogni creati dalla violenza. Le scuole venivano bombardate una dopo l’altra; nuovi campi venivano istituiti per coloro che perdevano la casa; acqua, rifugi. Ci avevano riportato di botto ai nostri bisogni primari. La nostra gente soffriva e noi ci sentivamo responsabili, a volte anche colpevoli.
Più la guerra si intensificava, più la nostra realtà diventava circoscritta. Andare in altre città era pericoloso e significava attraversare decine di checkpoint. L’internet satellitare era costoso e l’elettricità veniva tagliata dal regime. Volevano che la guerra ci isolasse e alienasse, ed è questo che accadde. La Siria che avevamo conosciuto nel 2011 cominciò a restringersi e prese le dimensioni della nostra città, talvolta era solamente la strada dove vivevamo.
Non avevamo spazi per elaborare il presente, figuriamoci per pensare al futuro. La narrativa politica che avevamo restaurato era paralizzata dalle procedure.
“Trattenete la lingua dal criticare i jihadisti”
“كفوا ألسنتكم عن المجاهدين”
Nel febbraio del 2013 un gruppo di sostenitori di Al-Qaeda alzò ad Aleppo un cartello con scritto: “Tutti noi siamo il fronte Al-Nusra”. Insieme a questo cartello, issarono un’insegna islamica: “Non c’è Dio all’infuori di Allah”.
Quando ci opponemmo a questi cartelli, ci accusarono di parlare male dell’Islam. Quando Abu Mariam, un attivista di Aleppo, tolse queste insegne, il Fronte Al Nusra lo arrestò e lo frustò con un tubo di metallo.
Gli islamisti cercarono di ridurre al silenzio le richieste democratiche dei siriani dall’interno del movimento, prima di tutto, reclamando il loro legittimità in quanto “vittime”. Le persone che facevano parte di questi movimenti erano tra coloro che avevano ricevuto le torture più brutali in Siria a partire dagli anni ottanta, quando avevano cercato di rovesciare Hafez al-Assad. Ma durante la rivoluzione, il regime voleva manipolarci creando caos, odio, atteggiamento settario e paura; liberò quindi dalla prigione molti estremisti islamici e si concentrò sull’arresto, la tortura e l’uccisione dei leader del movimento siriano non-violento.
Nel tempo, gli islamisti usarono la parola sacra come pretesto per uccidere qualsiasi tipo di dialogo politico, sfruttando l’idea che loro si battevano per una “causa superiore” per ridurre al silenzio qualunque critica o voce secolare. Governavano con la sharia e dicevano che nessuno poteva criticare ciò che era stato scritto da Dio. Accusavano gli attivisti di non essere abbastanza radicali nella loro lotta contro la dittatura, schernendoci con frasi come: “Se non vi piacciono le milizie islamiste, create il vostro gruppo Guevara”. Dipingevano sopra i nostri graffiti di libertà e sopra i simboli della rivoluzione, oscurandoli con frasi del Corano o con la scritta: “Il califfato è alle porte”.
“Trattenete la lingua dal criticare i jihadisti”, ci dicevano i sostenitori degli islamisti quando resistevamo al loro potere. Quando tutto ciò non servì a rompere la resistenza nei loro confronti, anche loro utilizzarono la violenza. Rapirono, torturarono e uccisero molti di coloro che si battevano per la democrazia e spinsero l’opposizione fuori dal Paese. Avendo già lasciato Aleppo ovest per Aleppo est per fuggire al servizio di sicurezza siriano, fui tra coloro che furono nuovamente costretti a spostarsi, da Aleppo est alla Turchia, per sfuggire dalle milizie islamiste.
Coloro che rimasero dovettero affrontare battaglie pluridimensionali, contro le armi da guerra del regime, e contro gli islamisti radicali, cercando allo stesso tempo di dimostrare al mondo che “noi” che ci opponiamo ad entrambe le forme di violenza esistiamo davvero.
“Ma non risponde ai desideri dei donatori” (1)
“Non so come dirlo, Marcelle, ma non credo che questa proposta risponda ai desideri dei donatori”, mi ha detto un funzionario dell’ONU durante il nostro primo incontro a Gaziantep, in Turchia, nel 2014. Non capivo cosa intendesse dire.
Avevo appena lasciato Aleppo e stavo cercando di trovare un modo per mantenere un rapporto con il Paese che mi aveva costretto ad andarmene, per affinare la mia voce e il mio ruolo nella democratizzazione della Siria.
Ho pensato che il mio sciocco abito formale corrispondesse sufficientemente ai desideri dei donatori, mentre stavo ancora lottando per capire le mie responsabilità in quanto rappresentante legale di un’organizzazione – nata come atto di resistenza all’interno della rivoluzione siriana e successivamente trasformatasi in ente gestore di scuole che si trovavano sotto i bombardamenti e con scarse risorse.
Alla fine ho capito le regole non scritte. Quando abbiamo menzionato nella nostra storia organizzativa il fatto che uno dei nostri co-fondatori, Mustafa, fosse stato ucciso da un attacco aereo di Assad, era questo che non rispondeva ai desideri dei donatori. La violenza di Stato non avrebbe dovuto essere nominata; le dichiarazioni avrebbero dovuto usare la forma passiva e una voce che fosse apolitica. “Le scuole sono state bombardate, gli attivisti uccisi”, ecc. Nominare gli autori di tali atti è considerato politico se l’autore è lo Stato, naturalmente. Tuttavia, se l’autore è un estremista islamista, nominarlo è un’azione incoraggiata. Dobbiamo agire in maniera “neutrale” nei confronti dello Stato e scusarci in maniera molto forte per quanto riguarda i nostri legami con l’estremismo. La “rivoluzione” dovrebbe essere definita “conflitto” e il “regime” dovrebbe essere chiamato il “governo”.
Molte delle organizzazioni internazionali che lavorano sulla Siria stavano spingendo per trovare una società civile siriana “neutrale”. Questa neutralità non aveva a che fare con la fornitura di servizi a tutti, indipendentemente dalla loro opinione politica. Piuttosto significava essere meno coraggiosi esprimendo meno opinioni. E allo stesso tempo da questa “neutralità apolitica” ci si aspettava che aiutasse a risolvere problemi politici complessi come la mancanza di partecipazione femminile ai governi locali e il reclutamento di bambini da parte delle milizie.
Anche se all’inizio non ho capito cosa significasse la terminologia “rispondere ai desideri dei donatori”, avevo vissuto in Siria abbastanza a lungo da riconoscere quando qualcuno stava cercando di mettere a tacere la mia voce. Anche se quel silenziamento avveniva in inglese, non in arabo.
Questa volta non era la paura la forza che spingeva al silenzio. Piuttosto, siamo stati messi a tacere da coloro che controllavano le risorse e plasmavano le narrazioni su ciò che stava accadendo nel nostro Paese. Le organizzazioni internazionali hanno determinato le nostre priorità. Noi, i siriani, eravamo i “loro partner esecutivi” e i “beneficiari”.
“Rispondere ai desideri dei donatori” significava scrivere a un donatore europeo che un progetto scolastico avrebbe impedito alla famiglia di un bambino di fuggire in Europa. Se il donatore fosse stato statunitense significava scrivere che la stessa scuola avrebbe impedito a un ragazzo della scuola primaria di diventare un terrorista.
Fortunatamente, non abbiamo imparato a rispondere ai desideri dei donatori. Abbiamo cercato di dire la verità, anche se non sembrava un atto abbastanza sensazionale. Lavoravamo per una Siria democratica, ed eravamo disposti a morire per questo. Abbiamo lavorato con un numero limitato di scuole e siamo riusciti a trovare alleati che ci sostenevano in tutto il mondo. Stavamo sviluppando ognuno dei nostri progetti non per la “sicurezza” di qualcun altro, ma per il nostro Paese, per il nostro futuro, ed eravamo determinati a preservare la nostra voce politica.
Invece, il termine “democrazia” ha cominciato a scomparire dal dialogo internazionale sulla Siria. Mentre la questione diventava un tema della diplomazia ad alto livello, i siriani raramente sarebbero stati al tavolo e i loro diritti politici raramente sono stati discussi. Gli incontri con i siriani riguardavano la “tolleranza”, la “lotta all’estremismo violento” e la “pace”.
Molti degli stranieri che hanno lavorato sulla “questione siriana”, hanno cercato di “civilizzarci”, di insegnarci ad ascoltarci a vicenda. Centinaia di corsi di formazione e workshop si sono concentrati principalmente sulla questione dell’amnistia, sulla comunicazione e sulle capacità di negoziazione. Quello che le organizzazioni internazionali pensavano come inclusione, infatti, ci inchiodava solamente alle nostre identità religiose ed etniche. Hanno ignorato l’oppressione sistemica e l’assenza dello stato di diritto, concentrandosi invece sul conflitto tra “noi”, il popolo siriano. Hanno ignorato il fatto che il problema principale non era che non ci stavamo ascoltando l’un l’altro: il problema era che il mukhabarat stava determinando i parametri del nostro dialogo, ascoltando ogni frase, attaccando chiunque osasse avere una propria voce.
Quando siamo stati invitati al tavolo, spesso veniva fatto per riempire un buco nell’equilibrio di genere, o qualsiasi altro equilibrio avessero in mente. I siriani raramente hanno deciso l’argomento e l’ordine del giorno. Personalmente, ho avuto il lusso di essere prescelta due volte, come donna e come esponente “locale” che parlava inglese.
Non potevo rappresentare quel tipo di “neutralità”. Avevo visto amici uccisi solamente perché sognavano di poter parlare liberamente della Siria.
Non volevo essere “neutrale”. Non volevo perdere questo piccolo spazio di libertà per cui abbiamo pagato un prezzo enorme, la libertà di poter esprimere la nostra narrazione politica.
Tuttavia, solamente al momento della caduta di Aleppo alla fine del 2016 mi sono arresa all’idea spaventosa che potrei non essere in grado di tornare in Siria. Mi ci sono voluti più di due anni per capire che ero una rifugiata, e che faccio parte di quella che è stato ampiamente descritto come:
“La crisi dei rifugiati”
In ogni caso, non sono riuscita a trovare la mia riflessione nel contesto della copertura della questione dei rifugiati siriani. Il “rifugiato siriano” viene schiacciato sull’identità di vittima. La “vittima” non vuole altro che cibo e riparo. La “vittima” non ha ragioni politiche per lasciare il proprio Paese. Le discussioni sul rimpatrio dei rifugiati in Siria utilizzano con noncuranza il termine “ritorno”. Le “vittime” sono traumatizzate e non possono partecipare alla politica e al processo decisionale. Le “vittime”, quindi, non danno forma al futuro dialogo sul loro Paese, la ricostruzione, i programmi di integrazione – o, Dio non voglia, la democrazia.
La maggior parte dei programmi che rispondevano alla “crisi dei rifugiati” sono stati progettati come se non esistesse un/a attivista siriano da consultare, e come se il problema principale che impedisce ai rifugiati di integrarsi fosse lo shock culturale.
Questi programmi, e la successiva copertura mediatica, spesso non sono riusciti a riconoscere che i sopravvissuti sono fuggiti dalla tortura, dai bombardamenti e dalla perdita dei propri cari, e che hanno lottato con le procedure legali del Paese di asilo. Naturalmente, non sono riusciti a riconoscere che ognuno dei rifugiati ha una voce politica individuale.
Si consideri il sito web dell’UNHCR “Searching for Syria”, lanciato nel 2017, che dichiara che “il mondo sta cercando risposte”, e prosegue ricordando quanto fosse felice la vita in Siria. Prima avevamo una vita glamour e poi improvvisamente è successa la guerra, tutto è crollato. Naturalmente, le cose sono peggiorate come per caso, senza la minima menzione delle responsabilità dello Stato o della sua tristemente nota storia di violazioni dei diritti umani. Non c’è da stupirsi, quindi, che il mondo non sia riuscito a trovare una risposta.
Questo tipo di copertura la dice lunga su come siamo considerati come popolo. Non possiamo lottare per i nostri diritti o per la democrazia; questo non può essere vero. Veniamo dal Medio Oriente. Combattiamo di punto in bianco per ragioni barbare.
Quando non sono riuscita a trovare la mia narrazione nei programmi internazionali e nel dialogo sulla Siria, ho deciso di smettere di cercarla. Volevo assumermi le mie responsabilità nei confronti della memoria del mio Paese e scrivere la mia storia con la mia voce.
Mi sono trasferita negli Stati Uniti e mi sono iscritta a un programma di scrittura creativa del MFA. Indipendentemente da quanto sia traumatico e pericoloso ripercorrere i propri ricordi, mi sento responsabile di proteggere le nostre storie siriane e condividerle con gli altri. Di solito, però, mi sento delusa e a volte indignata quando finisco un discorso e qualcuno si avvicina a me con questa conclusione:
“Però, è complicato”.
Come se avessi bisogno di qualcuno che mi ricordi questo fatto fondamentale. Come se non stessi vivendo ogni dettaglio della mia vita con questa complessità.
Certo, la situazione in Siria è complicata. Ignorare, semplificare o imporre la negazione intensifica ulteriormente la sua complessità. Dobbiamo considerare gli aspetti politici, sociali, economici e internazionali a più livelli della situazione in Siria se vogliamo risolverla.
Come scrittrice, continuo a lottare per resistere alle forze di sicurezza, agli islamisti, alla censura della comunità internazionale e alla mia autocensura interna.
Come scrittrice del Medio Oriente, pretendo la libertà di criticare la mia comunità senza che questo rappresenti un invito al genocidio, una pallottola in più alle frontiere, un’ora più lunga per i nostri uomini negli aeroporti o un altro divieto di viaggio.
Confido nella scrittura come atto politico per resistere alle molte forme di silenzio, perché credo sinceramente che qualsiasi soluzione ai sintomi e alle radici della crisi siriana inizi assicurando ai siriani la propria voce e la libertà di possedere la propria politica.
NOTA DI TRADUZIONE
(1) L’originale è “donor-friendly”, impossibile da tradurre in forma sintetica. Abbiamo preferito comunque tradurlo piuttosto che lasciare la definizione inglese….
Marcelle Shehwaro è un’attivista e scrittrice di Aleppo. Nel 2015, la sua serie online “Dispatches from Syria”, che descrive la sua vita ad Aleppo, ha vinto nel 2015 il “Online Journalism Award” per la categoria Online Commentary. È stata co-fondatrice e CEO di Kesh Malek, un’organizzazione della società civile siriana che si occupa di diritti umani, giustizia di transizione e istruzione. Marcelle ha conseguito una laurea in odontoiatria. Ha studiato relazioni internazionali in Siria e ha conseguito un Master in Diritti umani e diversità culturale presso l’Università dell’Essex, nel Regno Unito. Attualmente, è una studentessa del MFA in saggistica presso la Columbia University di New York.