Di Yassin Al Haj Saleh, pubblicato il 2 febbraio 2019 su AlJumhuriya
Traduzione Nurah EL Assouad
Il tuo compleanno è l’unico giorno che festeggio da quando sei assente, lo passo da solo, con te.
Da settimane penso che quello che ci ha unito è la voglia di sperimentare, la volontà di vivere nuove esperienze, quella di rischiare per poi ricominciare. I nuovi inizi sono sempre difficili e le esperienze possono essere dolorose, io e te questo lo sappiamo bene.
Negli anni ottanta del secolo scorso, diventasti comunista, affiliata ad un’organizzazione che si opponeva al regime ben sapendo di rischiare la prigione e la tortura e quando questo è successo hai urlato per le strade per far sì che la gente assopita si rendesse conto di ciò che accadeva intorno ad essa e che ciò che accadeva a te sarebbe potuto capitare anche a loro. Ti hanno messa a tacere ed hanno impedito ai più curiosi di correre alle finestre per vedere cosa stesse accadendo. Quella organizzazione segreta che ha il monopolio delle armi e che viene chiamata “Lo Stato” voleva che tutto fosse allo scoperto, che i condannati fossero pagine da leggere, senza segreti o privacy, usando lo spionaggio e la tortura.
Come te, forse solo qualche anno prima, sono diventato comunista, affiliandomi ad un’altra organizzazione opponente, e come te fui incarcerato dalla stessa organizzazione segreta, che ha voluto diventassi una pagina da leggere, restando essa un libro chiuso dal contenuto ignoto. Ricordi cosa disse Rifaat Al Assad sulla necessità di mantenere il segreto sulla “sicurezza”, nel congresso del partito Baath nel 1979? Rifaat propose che tutti gli agenti di sicurezza vivessero in zone speciali in modo che la gente comune non sapesse come pensavano. Dopo anni, Rifaat perse la sua lotta al potere contro il fratello, questo conflitto si risolse tramite una lotta familiare –locale: niente prigioni, né torture e né morte, e il perdente vive oggi nell’ Europa democratica godendosi i soldi rubati ai siriani. La vita segreta delle menti della sicurezza in zone impenetrabili resta invece una base conservata fino ad oggi.
Siamo diventati comunisti quando questo significava cambiare il presente, cambiare il mondo e prima di tutto cambiare noi stessi, non riuscimmo a cambiare la realtà del nostro paese, ma cambiammo noi stessi. Volendo questo cambiamento, volevamo rappresentare quello che avremmo voluto vedere nel mondo, come suggeriva Ghandi. Dopo essere usciti di prigione, non eravamo più gli stessi, abbiamo accettato la prigione come una parte organica della nostra vita, come avremmo voluto fosse stata la libertà.
Dopo la prigione hai intrapreso una nuova esperienza e ti sei spostata a Damasco vivendo in maniera indipendente dalla tua famiglia, e questo è quello che ho fatto anche io dopo essere uscito di prigione. La decisione di andare a vivere in un’altra città era l’inizio di una vita nuova. Nel nostro paese questo era, e lo è tuttora, molto più facile per uomo, ma tu eri decisa e lo hai fatto con molto coraggio e se essere liberi pubblicamente non era possibile, l’ex detenuta politica che eri ha scelto di essere libera nel suo ambito privato. Un ex detenuto politico non avrebbe avuto bisogno di molto coraggio per fare la stessa cosa nel nostro paese.
Nel 2000 a Damasco le nostre strade si sono incrociate: due ex detenuti, indipendenti, che vivevano in una capitale che conoscevano appena, prima della prigione, che lavoravano per vivere, tu trascrivendo i testi al computer che aveva cominciato da poco a diffondersi, ed io scrivendo e traducendo.
Anche il nostro matrimonio, nonostante le nostre origini differenti e la divergenza dei nostri primi inizi, è stato un atto di libertà e di coraggio da parte tua specialmente. Questo nuovo inizio non era altro che la continuazione di tutte le lotte precedenti, di prigione e vita indipendente. Eravamo due storie ma da settembre del 2002 ne siamo diventati una sola.
Il quarto inizio e la quarta esperienza è stata la rivoluzione, mi sono nascosto per dire e scrivere quello che pensavo fosse giusto, e tu hai voluto che la nostra casa rimanesse aperta finché fu possibile, eri tu che rendevi della nostra abitazione presa in affitto “casa nostra”, e per te uscire da quella casa è stato come abbandonare il tuo paese, hai detto questo nel tuo libro “Il diario dell’assedio a Duma” nel 2013, non lo sapevo Sammour , solo oggi capisco che difendendo la nostra casa tu preservavi il nostro spazio comune, il nostro porto sicuro dove tornare dopo ogni volta che venivamo separati, anche se per molto tempo ma mai definitivamente. Le tue parole nel libro ricordano lo sradicamento e il dislocamento che purtroppo avrebbero dopo deriso queste parole amareggianti perché quello che ci aspettava era ancor più doloroso.
Quando lasciai Damasco per Al Ghouta Orientale, e la mia permanenza si fece lunga hai voluto unirti a me in una nuova esperienza, lo desideravi così tanto da ringraziarmi nel tuo libro per averti portato in questo posto, anche quando ormai mi trovavo altrove. Quella volta avrei voluto che non fossi venuta, che non mi avessi ringraziato, avrei dovuto insistere per non farti venire anche se questo ti avrebbe fatto arrabbiare per un po’ di tempo.
Il pericolo e il cambiamento erano già presenti nelle nostre esperienze di vita da più di mezzo secolo, anche prima della tua assenza. Abbiamo affrontato il pericolo senza essere certi della sopravvivenza, per poi uscirne cambiati. Noi siamo figli di esperienze che ci hanno formati, non avrei potuto decidere al posto tuo in quel momento e scegliere per te un’esperienza sicura. Magari lo avessi fatto!
Per te è sempre facile intraprendere nuove esperienze, anche le più difficili, malgrado le difficoltà che descrivi nel tuo libro, il tuo entusiasmo prevale sempre al dolore che ti circonda e quello che hai provato su te stessa, senza rinnegarlo hai usato le parole per curarlo.
Ho lavorato per trasformare le esperienze in pensieri, tu le hai trasformate in sensazioni e gli hai dato vita, le hai rappresentate in te stessa, mentre io le ho rappresentate con il mio lavoro. Hai sempre saputo distinguerti dagli altri, e su questo hai avuto ragione anche più di tuo marito a cui è sempre mancata la cautela , e siamo entrambi a conoscenza di esempi che lo dimostrano, io ho sempre lavorato per distinguermi con i miei pensieri, quelli veri o quelli falsi, quelli che aprono nuove porte o che si rinchiudono in essi stessi, ma quello che ci avvicina è che abbiamo sempre voluto distinguerci e schierarci , abbiamo voluto scegliere tra vivere o morire, ed abbiamo sempre scelto di essere dalla parte della vita.
La tua politica è fatta di compassione e condivisione, di espressione del dolore, le tue parole nel “Diario dell’assedio” sono impregnate di politica di condivisione, senza mai mettere il tuo dolore avanti a quello altrui hai deciso semplicemente e con chiarezza che l’assedio che hai condiviso con gli abitanti di Douma è stato più duro che la prigione che hai vissuto in passato come detenuta. La mia politica invece, era quella di raccontare alla gente la verità su chi era al potere , cambio volontariamente un’espressione usata in inglese sul dire la verità a chi ha il potere o su chi ha il potere, la troverai usata anche da altri autori. Non vedo l’autorità fare discorsi ,neanche provocatori, anche quando il potere viene inteso in modo più ampio includendo i forti, quelli che hanno potere economico ,sociale e religioso, ma anche quello simbolico, formato da intellettuali, artisti, e letterati; il potere potrebbe essere argomento di un discorso di cui gli interlocutori sono persone diverse influenzate dalle azioni compiute da chi ha il potere , e da chi potrebbe essere complice con le parole e nel far sì che queste cambino .
Durante la tua assenza per via di una autorità religiosa che ruba, uccide e mente come la controparte assadista, ho adottato una seconda politica che porta il tuo nome e di cui sei il simbolo. Di questo ho un ricordo spiacevole Sammour: nell’aprile del 2016 e prima della data stabilita, ho ricevuto da parte di un membro della “Coalizione” * un invito per un seminario sull’andamento della rivoluzione, ad Istanbul. In quel periodo mi trovavo ad Istanbul, ma era un’altra città. Ho risposto all’invito dicendo che non avevo a che fare con la Coalizione e i sui membri, e che la mia politica portava il nome di Samira Khalil, non ho ricevuta risposta, la persona che mi aveva invitato non mostrò solidarietà, non pensò neanche a dirmi, per esempio, che avrei potuto parlare della mia politica nel loro seminario periodico.
Evito sempre di parlarti di queste cose spiacevoli, ma vorrei tanto averti vicina per raccontarti tante cose, come eravamo soliti fare, anche solo per pochi minuti, quando uno di noi tornava da una passeggiata qua e là o da un viaggio.
Oggi hai un racconto terribile su un’esperienza altrettanto terribile e lunga che neanche le nostre vecchie esperienze riescono ad alleviarne la pesantezza. La tua storia, il tuo racconto, lo raccontiamo insieme.
Tutte le nostre esperienze, la lotta, la prigione, l’indipendenza e l’amore, e poi questa assenza muta e lunga, sono uno dei volti dell’esperienze del nostro paese addolorato, del quale non vediamo forse le fonti della tragica composizione, della sua storia e il suo ambiente o forse non crediamo a ciò che i nostri occhi vedono.
Oggi, visto che sei lontana e che non posso prendermi cura di te e dato che sono lontano dal paese in fiamme, il quale ci hanno detto palesemente che brucia perché rimanga colui che gli ha dato fuoco, cerco di essere il narratore della storia di Samira/Siria che non è ancora terminata.
Questa è la mia politica.
Questa è la mia battaglia.
E nonostante i miei fragili arnesi, il vecchio combattente lotta, cercando nuove strade per continuare la sua battaglia, questa e tante altre ancora.
Sammour, abbiamo vissuto in Siria una vita di lotte, e moriremo da combattenti.
Oggi, nel giorno del tuo compleanno, ti auguro di stare bene.
*Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione