Scritto da ANAND GOPAL, pubblicato in Newyorker “Syria’s Last Bastion of Freedom”
Traduzione di Marina Centonze e Giovanna De Luca, revisione di Mary Rizzo
In mezzo ad una brutale guerra civile, una città ha combattuto contro il regime e i fondamentalisti e ha osato tenere elezioni. Il suo esperimento di democrazia può sopravvivere?
La provincia di Idlib, una distesa di ulivi e campi di grano nel nord della Siria, ospita 3 milioni di persone, che dal 2015 sono di fatto intrappolate. Vivono nell’ultima enclave dell’opposizione nel paese, in un caotico assortimento di ribelli, tra i quali i più potenti sono i fondamentalisti religiosi. L’anno scorso l’inviato speciale statunitense Brett McGurk ha etichettato Idlib come “il più grande porto sicuro di Al-Qaeda dall’11 settembre”. Il dittatore siriano Bashar al-Assad ha promesso di avanzare un’offensiva su Idlib, lanciando razzi, barili bomba, bombe a grappolo e armi chimiche. Ciò potrebbe innescare una crisi di rifugiati di proporzioni storiche, spingendo milioni di persone a fuggire in Turchia e in Europa. I residenti di Idlib, nel frattempo, devono continuare a vivere su un campo di battaglia capriccioso senza stato di diritto e senza una chiara autorità di governo.
Nell’estate del 2017, per la prima volta in Siria dal 1954, gli abitanti della città di Saraqeb hanno deciso di prendere in mano il loro futuro e tenere elezioni veramente libere.
La mattina in cui si sono aperti i seggi, un attivista di nome Osama al-Hossein si è svegliato alle cinque, ansioso. È andato verso Idlib Gate, un ex grande magazzino trasformato in sala riunioni. C’era una piccola folla in giro: giornalisti locali, osservatori e dignitari che rappresentano l’opposizione siriana. Le elezioni servivano per scegliere il capo del Consiglio Locale, un corpo civile che dovrebbe governare la città. Coloro che stavano lavorando ai sondaggi controllavano i loro telefoni, attenti alle segnalazioni di traffico aereo: i jet siriani e russi hanno spesso attaccato le riunioni pubbliche, e gli attivisti hanno messo sentinelle in tutta la provincia.
Hossein, allora di 35 anni, aveva il volto profondamente segnato, quello di un uomo che conosce bene lunghe notti di veglia fatte di caffè e sigarette. Prima della guerra dirigeva una compagnia di cemento e negli ultimi mesi si era offerto volontario per organizzare le elezioni. Mi aveva anche detto che, date le circostanze, organizzare un’elezione popolare era “un’idea folle”. Aveva partecipato a riunioni elettorali per il suo candidato preferito, un avvocato di nome Ibrahim Bareesh, in un nascondiglio di fortuna, seduto vicino ad un muro di sacchi di sabbia. Aveva contribuito a organizzare dibattiti trasmessi in diretta su Facebook, in cui si erano presentati cinque candidati, che avevano discusso sui tagli alla rete elettrica e sull’aumento repentino del prezzo del cibo, altri avevano parlato del mercato libero. Hossein e altri volontari avevano condotto un censimento locale, distribuito opuscoli, e avevano trovato delle persone per monitorare delle elezioni. Si erano registrati migliaia di elettori, ma nessuno era sicuro di quanti ne sarebbero usciti per votare. Il pericolo non proveniva solo dal cielo, ma anche dai posti di controllo che circondano le città sotto il controllo di Al-Qaeda.
I seggi aprivano alle 8.30. Il sole era già alto, ma le strade erano vuote, le imposte dei negozi serrate. Nessun manifesto elettorale è stato affisso sui muri perchè i candidati non hanno potuto affrontare questa spesa. Hossein portò otto urne di vetro nelle scuole che ospitavano le elezioni. Quando tutto fu pronto, cominciò l’attesa fuori alla scuola al-Baneen, le strade immerse nel rumore dei generatori. Un’ora dopo, arrivarono i primi votanti. In seguito si recarono alla scuola al-Salam, dove alcune donne si erano messe in fila. Poi, una presa di coscienza da vertigine: la gente stava davvero arrivando.
Hossein vedeva amici, parenti e un flusso costante di persone che non conosceva, compreso un uomo di settant’anni che votava per la prima volta nella sua vita. La bandiera a tre stelle della rivoluzione siriana del 2011 era appesa tra i pilastri. I piatti traboccavano di pollo arrosto, patate e riso. Qualcuno accese un registratore con la musica di un cantante locale, Ahmed al-Tellawi, e gli addetti alle urne e Hossein iniziarono a ballare.
Entro il tardo pomeriggio, le file per votare arrivavano fino in strada. C’erano due candidati ancora in corsa nel ballottaggio per la presidenza del Consiglio Locale ed i loro sostenitori si erano riuniti ad Idlib Gate; quando arrivarono i primi risultati, iniziarono a litigare. Secondo lo statuto delle elezioni, che Hossein aveva contribuito a realizzare, se il numero di votanti non avesse raggiunto il 50%, ci sarebbe stato un giorno in più per recarsi alle urne. Il candidato rivale di Bareesh, che pensava di essere in testa, premeva per la chiusura dei seggi. Mentre in un angolo venivano contati i voti, Hossein faceva la spola tra i campi avversari, cercando di persuaderli a rispettare il regolamento. All’annuncio di un funzionario elettorale che l’affluenza era arrivata al 55%, nella stanza tutti applaudirono.
Enormi manifesti di propaganda sostituiscono i cartelloni pubblicitari. Su di un cartello, in cima alla sottostazione elettrica, c’è scritto “la Siria è protetta da Dio”, accompagnato da una foto di Assad che osserva la strada sottostante.
(Prima della guerra, Hossein era stato account manager presso una società di cemento. In seguito diventò un attivista politico e, nel 2011, fu torturato e imprigionato dalle forze di Assad per cinque mesi.)
Hossein era stanco, ma voleva festeggiare. Mentre gli scrutinatori riempivano i tabulati con i risultati delle elezioni, si mise in viaggio verso una casa di campagna fuori dalla città. Sotto il pallido riflesso di una luce fluorescente, mise la carne sul barbecue e aprì una bottiglia di Grant 25. Hossein non riusciva a credere a quello che avevano realizzato. Le proteste del 2011 erano cominciate come proteste pacifiche nelle quali si chiedevano riforme, ma quando il governo aveva risposto con la violenza e le fazioni ribelli erano aumentate, il paese era entrato in una spirale di morte: proiettili, barili bombe, decapitazioni. Una dopo l’altra, molte città erano uscite fuori dall’orbita di controllo del governo, e nuovi orrori avevano cominciato ad emergere. Nel paese sventolavano la bandiera dell’Isis e quella di Al-Qaeda. I bambini cercavano rifugio con le loro famiglie fuori dal paese e spesso annegavano in mare; venivano registrate le uccisioni di ostaggi occidentali. La Siria sembrava essere caduta nel baratro della barbarie, e, agli occhi della comunità internazionale, la crudele stabilità della dittatura di Assad appariva ragionevole, perfino auspicabile. In Siria c’era stata la follia di immaginare, in una regione multi etnica e religiosa, che un mondo migliore fosse possibile.
In qualche modo, Saraqeb era sfuggita a questo destino. All’interno del conflitto siriano proponeva una storia diversa e Hossein credeva che i suoi abitanti incarnassero la vera anima della rivoluzione. Quella sera immaginò che altre piccole democrazie sarebbero fiorite in Siria e che il resto del mondo sarebbe giunto finalmente a comprendere che il suo paese aveva molto più da offrire che non spargimenti di sangue e tragedie.
Di ritorno a Idlib Gate, alle tre di notte, un ufficiale annunciò il nome del vincitore: il rivale di Bareesh, un avvocato di nome Muthanna al-Muhammad. Cominciarono gli applausi. Il risultato era la cosa meno importante, ciò che contava era stata la partecipazione delle persone ad un atto democratico. La gente era in lacrime. Anche se Bareesh aveva perso, Hossein ricevette abbracci e strette di mano.
Proprio in quel momento, la porta si aprì ed un gruppo di uomini armati entrò seminando il panico. Hossein li riconobbe, erano ribelli locali che avevano supportato le elezioni. “Fuori tutti!” gridò uno. “Mettetevi in salvo!”. Mentre tutti scappavano verso la porta, la notizia si sparse nella stanza: Al-Qaeda stava assaltando Saraqeb.
Situata nelle pianure al sud di Idlib, Saraqeb è una città con un solo ufficio postale e poco altro. Per decenni, è stata una tappa di sosta lungo l’autostrada di Damasco-Aleppo, nota soprattutto per la competenza dei suoi residenti nella riparazione degli impianti di perforazione per trivellare pozzi d’acqua. I terreni agricoli si irradiano dai bordi della città. Le strade di Saraqeb sono strette viuzze di pareti ingiallite di cemento. Ai piani superiori delle case si trovano balconcini di mattoni grezzi. Il centro è denso di negozi e bancarelle di alimentari. Niente cinema, parchi, bar o night club. Sul lato nord della città c’è un campo da calcio, ombreggiato da alberi di fico e olmo; i residenti prendono sul serio lo sport. Le origini di molti dei 30.000 abitanti di Saraqeb risalgono all’età ottomana, nonostante in tempi più recenti una comunità rom si sia stabilita nella zona sud, specializzandosi nell’odontoiatria.
Per molti anni in città non c’erano stati quotidiani ne stazioni radio; le notizie arrivano attraverso la stampa di stato da Damasco o Aleppo. Al posto dei cartelloni pubblicitari si trovavano enormi manifesti di propaganda. Su di un cartello, in cima alla sottostazione elettrica, c’era scritto “la Siria è protetta da dio”, insieme ad una foto di Assad che osservava la strada sottostante.
Sui moduli scolastici gli venne chiesto di attestare l’affiliazione al partito: c’erano due scelte, il Baath o “neutrale”, e lui scelse con sfida la seconda.
Da bambino, Hossein vedeva questi cartelli ovunque. Ho incontrato Hossein per la prima volta con altri attivisti nell’estate del 2017. Ha l’aria di un uomo che analizza perennemente i misteri più profondi della vita, sebbene abbia un debole per il Real Madrid e per il liquore fatto in casa. Quando Assad controllava l’area, ricorda Hossein, anche le conversazioni al chiuso erano limitate. “Cioè valeva il detto: ‘Anche i muri hanno orecchie’”, dice. La sorveglianza era palpabile; c’era l’edificio che ospitava il ramo locale dell’intelligence militare, l’ufficio con bandiere del partito Baath al potere. Nelle scuole elementari, gli alunni ricevevano istruzioni sulle armi da fuoco e cantavano: “Con il nostro sangue, con le nostre anime, ci sacrifichiamo per te, Bashar!”
Hossein era cresciuto nei quartieri popolari di Saraqeb, dove suo padre aveva un piccolo negozio di alimentari. Il venerdì, la sua famiglia andava in moschea o in campagna. Sin da piccolo mostrava una facilità per i numeri e sorprendeva gli amici ricordando le date degli eventi più oscuri. Sognava “di fare qualcosa di grande” come diventare economista e combattere la povertà. Ma vedeva che in classe i professori mostravano favoritismi verso i figli degli ufficiali di sicurezza, dando loro addirittura le soluzioni degli esami. Sui moduli scolastici gli venne chiesto di attestare l’affiliazione al partito: c’erano due scelte, il Baath o “neutrale”, e lui scelse con sfida la seconda. Dopo essersi diplomato, le sue domande di lavoro restarono senza risposta.
Un giorno, un amico lo invitò a un incontro di un partito socialista che seguiva vagamente la visione del nazionalista arabo Gamal Abdel Nasser, in Egitto. “Non sapevo nulla di tutto ciò”, ammetteva Hossein. “Mi unii a loro solo perché mi avevano detto che si erano opposti al regime”. I legami con questo partito lo aiutarono a entrare a far parte del governo della città. Sosteneva idee socialiste, ma si opponeva al “falso socialismo” del regime, che, secondo lui, sfruttava quest’etichetta per arricchirsi. Al lavoro si diede da fare per chiedere aumenti salariali per i lavoratori del settore pubblico, ma i suoi sforzi furono affossati. Realizzò che il suo partito si era arreso alla supremazia del Baath e funzionava come parte del governo; i partiti che portavano avanti una vera opposizione erano stati messi al bando.
Hossein si allontanò dalla politica e alla fine trovò lavoro in un’azienda di cemento. Aveva poco tempo da dedicare alla lettura – anche se tutto quello che valeva la pena leggere era illegale -ma scoprì Hollywood e guardava le serie investigative ovunque ci fosse un lettore Dvd. “Non c’era motivo di pensare alla politica, perché pensavamo che il regime fosse ovunque – anche in camera da letto”, dice scherzando. Ma un giorno a casa dei suoi genitori, nel gennaio 2011, il satellite TV mostrò immagini sbalorditive provenienti da Piazza Tahrir, al Cairo, piena di manifestanti.
A quel tempo, Hossein non riusciva ad immaginare che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere anche in Siria. Ma un mese più tardi, alcuni studenti di Daraa dipinsero su un muro della scuola: “E’ il tuo turno, o dottore” in riferimento ad Assad. Vennero arrestati e torturati dalle forze di sicurezza. Le proteste scoppiarono e Hossein sapeva che il regime avrebbe risposto massacrando i dissidenti disarmati. Mentre le dimostrazioni si diffondevano in tutta la Siria, Hossein si chiedeva se si sarebbe potuto organizzare qualcosa a Saraqeb.
Una sera di quel mese di marzo, Hossein e cinque amici si incontrarono a casa dei suoi genitori per discutere di politica. Parlavano di una rivolta dei Fratelli Musulmani negli anni ottanta e della feroce risposta del regime, che aveva lasciato migliaia di morti. “Sapevamo molto bene che se avessimo voluto contrastare il regime, il prezzo sarebbe stato alto”, mi disse. Ma le recenti proteste a Daraa riguardavano riforme democratiche basilari, non chiedevano il rovesciamento del governo, e Hossein era fiducioso sul fatto che Assad si sarebbe sentito osservato dalla comunità internazionale e dai social media, che avrebbero potuto trasmettere i suoi abusi. Quel venerdì i sei amici decisero di tenere una protesta a Saraqeb e giurarono di invitare segretamente una o due persone di cui si fidavano. La legge sullo stato d’emergenza vietava la maggior parte delle forme di assemblea pubblic, ed il gruppo riuscì a pensare ad un solo posto dove si sarebbe potuta tenere una manifestazione.
Il 25 marzo 2011, alcune dozzine di fedeli si radunarono nella moschea al-Zawiya, al centro della città. Tutti erano in fila con le braccia conserte e la testa abbassata e l’imam recitava le preghiere pomeridiane. All’improvviso, un giovane gridò “Allahu akbar!”, una normale esclamazione religiosa che però in questo contesto sfidava il principio costante della vita siriana, cioè che Assad fosse più grande di qualunque cosa esitente e concepibile. Il giovane uomo guidò una processione fuori dalla moschea. Modificando un noto slogan, gli uomini cantavano: “Con il nostro sangue, con le nostre anime, ci sacrifichiamo per te, O Daraa!”
“Davanti a me il personale della sicurezza, dietro di me i ragazzi del Baath, ma io stavo protestando con la mia gente. I miei amici mi baciavano, alcuni vecchi piangevano, mi aspettavo un proiettile in testa in qualsiasi momento e di morire sulle loro spalle. Fu una sensazione strana e favolosa.”
La manifestazione durò solo pochi minuti, ma in seguito la città natale di Hossein si sentì diversa. “Avevamo rotto il muro della paura”, ricorda, “E altre persone vennero a coordinarsi con noi”. Hossein si avvicinò all’uomo che aveva urlato nella moschea, uno studente universitario noto come Muhammad Haf. Formarono il nucleo di un gruppo di attivisti che si ritrovava ogni venerdì e marciava attraverso il mercato mentre gli agenti del regime li sorvegliavano dai marciapiedi. In questa atmosfera di tensione, Haf – che, prima della rivoluzione, non aveva mai espresso un’opinione politica – mostrò gioia e carisma. “Ballava con i bambini, saliva sulle macchine per cantare”, ricorda Hossein. “Ovunque si trovasse, la gente si riuniva”. A notte fonda, sotto un fico in una piantagione di ulivi fuori città, Hossein e Haf incontravano altri attivisti. Scrivevano slogan su cartelli e pianificavano vie di fuga. Nell’oscurità della notte, andavano a casa degli amici e li imploravano di unirsi al gruppo.
Le folle del venerdì crebbero costantemente. I manifestanti cantavano “pacifico, pacifico”, chiedendo riforme come l’abolizione della legge di emergenza. “Mi sentivo come se fossi nato di nuovo”, ha detto l’attivista Manhal Bareesh al sito web Syria Untold. “Davanti a me il personale della sicurezza, dietro di me i ragazzi del Baath, ma io stavo protestando con la mia gente. I miei amici mi baciavano, alcuni vecchi piangevano, mi aspettavo un proiettile in testa in qualsiasi momento e di morire sulle loro spalle. È stata una sensazione strana e favolosa.”
Poche settimane dopo, il governo consegnò il corpo di un soldato di Saraqeb che aveva prestato servizio a Daraa. Ufficialmente, era stato ucciso dai manifestanti, ma il suo cadavere mostrava una ferita da proiettile alla nuca. I manifestanti introdussero un nuovo canto: “La gente vuole la caduta del regime.”
Quell’aprile, le forze governative assaltarono Saraqeb; Hossein passò la notte fiancheggiando i vicoli e nascondendosi sotto i portici dove le luci erano spente, in fuga mentre la Sicurezza cercava nelle case. Radunò quasi un centinaio di attivisti. “Abbiamo perso il cuore del nostro movimento in una sola ora”, mi disse Bareesh. “Quella è stata l’ultima volta che ho dormito nel mio letto”. I residenti nascosero i restanti attivisti nelle loro case; Hossein passava ogni notte in una fattoria diversa fuori città, rientrando a casa solo per cambiarsi d’abito.
Quando a giugno l’esercito aprì il fuoco sui dimostranti a, uccidendo una persona, i residenti incendiarono il quartier generale del Baath. In piedi tra la folla, Hossein, si rese conto con felicità ma anche nervosismo che la rivoluzione aveva raggiunto l’intera città.
Il governo si vendicò con una forza ancora maggiore; l’11 agosto 2011, i suoi carri armati presero di nuovo d’assalto Saraqeb. Quando non riuscivano a trovare attivisti nelle case, arrestavano i loro amici e parenti. Saccheggiavano negozi e incendiavano case. Dagli uliveti fuori città, Hossein poteva vedere colonne di fumo salire da Saraqeb.
Giovani studenti universitari, agricoltori, lavoratori, non avevano idea di cosa dovesse sostituire il governo. Nessuno di loro oltre a Hossein aveva mai letto un trattato politico o partecipato ad una riunione di partito. Il regime aveva reso la vita civica così povera che l’unità degli attivisti si basava su ciò a cui si opponevano: la corruzione, l’aumento del costo del pane, il degrado quotidiano della dittatura.
Una sera si recò verso un albero di fico per ritrovarsi con la leadership del movimento – circa 40 persone. Un cavo elettrico proveniente da una fattoria vicina alimentava una lampadina e sotto, gli uomini bevevano caffè amaro, fumavano e discutevano. Giovani studenti universitari, agricoltori, lavoratori, non avevano idea di cosa dovesse sostituire il governo. Nessuno di loro oltre a Hossein aveva mai letto un trattato politico o partecipato ad una riunione di partito. Il regime aveva reso la vita civica così povera che l’unità degli attivisti si basava su ciò a cui si opponevano: la corruzione, l’aumento del costo del pane, il degrado quotidiano della dittatura. Idee vaghe sulla democrazia e la redistribuzione della ricchezza aleggiavano su Saraqeb, mentre alcuni residenti temevano che gruppi come la Fratellanza Musulmana si sarebbero potuti intromettere nella loro rivolta nonviolenta. Ma nessuno aveva un programma pratico, era già una sfida sopravvivere alla notte che avevano davanti. Gli attivisti erano d’accordo sul fatto che, prima di poter andare avanti, avevano bisogno di organizzarsi meglio. Così fu eletto un comitato di coordinamento locale formato da otto persone, incluso Hossein, che contribuisse a dirigere le proteste. Per molti degli attivisti, fu la prima volta che avevano votato.
Discutevano su come proteggere le dimostrazioni. Un’aspra discussione cominciò quando alcuni degli uomini proposero di armarsi. Iyad Jarrod, uno degli attivisti, ricorda: “Ero contrario, come molti di noi. Si diceva che le armi ci avrebbero portato indietro agli anni ‘80. Anche Hossein era contrario”. Alcune settimane prima, un ex membro dei Fratelli Musulmani di Saraqeb, in esilio in Arabia Saudita, lo aveva chiamato e si era offerto di raccogliere fondi per le armi; Hossein aveva rifiutato. Sotto l’albero di fico, fece un appassionato discorso contro l’uso delle armi e gli attivisti accettarono di continuare la loro rivoluzione pacifica.
L’incontro terminò dopo la mezzanotte. Hossein e tre amici andarono in una fattoria lontano dal paese, sistemandosi in un magazzino. Nell’oscurità, riuscivano a vedere solo le punte delle sigarette mentre riflettevano su un futuro che, per la prima volta nella loro vita, sembrava appartenergli.
(Nel bazar o nel cortile della scuola, i residenti di Saraqeb sentivano il rombo profondo di un aereo che si avvicinava e iniziavano a correre in preda al panico. Nel giro di alcune settimane, più di cento barili bomba colpirono la città. La gente spesso non riusciva a capire se fosse Mosca o Assad ad attaccarli. Illustrazione di Bill Bragg)
Si addormentarono. Più tardi, Hossein fu svegliato da un sussurro: “Ci sono luci che si avvicinano”. Uscirono mentre una Kia K4000G, un pick-up usato dagli agricoltori per trasportare barbabietole, si fermò. Un uomo chiamò uno degli amici di Hossein, “Tu con gli occhiali, vieni qui.” Il suo accento aveva i tratti affilati degli altipiani costieri, il territorio di casa di Assad. Quando Hossein fece qualche passo indietro, alcune figure scure saltarono giù dal pick-up. Venne gettato a terra e bendato, sentì urla e colpi di pistola.
Hossein si ritrovò presto in una grande cella, in un groviglio di arti e avvolto dall’odore del sudore. Contò più di 400 persone, compresi alcuni bambini. Il suo piede era rotto e penzolante: era stato anche frustato sotto le suole nude dei piedi, poi era stato legato ad una barella e sottoposto a scariche elettriche. Era stato legato ad una tavola pieghevole, conosciuta nelle prigioni siriane come “il tappeto volante”; le sue gambe erano state spinte contro la sua faccia mentre sosteneva il peso di uno dei suoi carcerieri.
Passavano le settimane. La scabbia si diffuse tra i prigionieri e sul naso di Hossein crebbe una pustola grande quanto una palla per giocare a golf. Sentiva urla provenire dai corridoi della prigione. Una notte, le guardie trascinarono in cella un manifestante le cui gambe e la schiena erano diventate blu a causa delle torture. I compagni si riunirono intorno a lui e versarono acqua sui suoi lividi. Hossein lo massaggiò, cercando disperatamente di riattivargli la circolazione, ma l’uomo stava morendo. “Ho cinque figli, e ho mia madre,” disse ad Hossein. “Salutala da parte mia”.
Hossein fu trasferito in varie prigioni. Spesso la notte non riusciva a dormire. Cercava di immaginare il suo ritorno a Saraqeb: le manifestazioni del venerdi, il suono metallico della voce amplificata di Muhammad Haf. Cercava di evocare il sapore di una sigaretta, e si domandava come stesse sua madre, e se i suoi amici stessero ancora protestando. Fu una piccola consolazione quando scoprì che un amico di Saraqeb, Yaser, era in cella con lui.
Un giorno di novembre, udì il lontano aprirsi di un cancello, seguito da passi smorzati nel corridoio. Era una guardia, che stava gridando dei nomi, incluso il suo. Lui ed altre 51 persone furono trascinate nel corridoio e fu detto loro di stare in piedi, spalla a spalla, formando due file. Hossein trovò Yaser e si mise al suo fianco. Un aiutante ordinò alla fila di Hossein di salire a bordo di un bus e alla fila di Yaser di salire su un altro. Hossein non rivide mai più nessun altro dell’altra fila. “Se Yaser fosse stato davanti o dietro di me, sarebbe con me ora.”
I 26 uomini nella fila di Hossein furono trasferiti in un’altra prigione. Durante la tortura, Hossein confessò 11 accuse, tra le quali: prendersi gioco dell’esercito, formare una “banda di malvagi”, avere un’arma e finanziare i terroristi. Migliaia di siriani furono arrestati con accuse simili, ma dato che le prigioni stavano raggiungendo il sovraffollamento, il regime iniziò a rilasciare alcuni detenuti. Il 20 gennaio 2012, dopo 5 mesi di reclusione, Hossein fu liberato. Era buio quando entrò a Saraqeb e non riusciva a credere a quello che stava vedendo. La città aveva organizzato per lui una festa di benvenuto: macchine che suonavano il clacson, bambini che lanciavano stelle filanti, donne che urlavano dai balconi, uomini che suonavano tamburi, colpi di arma da fuoco sparati in aria. Arrivò a casa e abbracciò i suoi genitori. Meravigliato, osservò che vi erano fucili ovunque. Le persone sparavano in aria in modo gioioso, illuminando il cielo notturno su Saraqeb. Gli amici che erano soliti riunirsi sotto l’albero di fico, una volta semplici insegnanti o muratori, erano ora armati ed ognuno era a capo di una sua brigata.
Hossein, riunito con i vecchi amici, si rimise ad organizzare nuove proteste. Venne a sapere che dopo il suo arresto il dibattito sull’uso delle armi era durato settimane. A quel tempo, alcuni agenti locali avevano raccolto nomi per il regime e questi ‘shabiha’ – un termine in uso per gli sgherri del regime – molestavano anche i parenti degli attivisti e talvolta facevano irruzione nelle case. Dopo il rapimento di un attivista, ricorda Manhal Bareesh “Sapevano tutti i nomi, potevano raggiungere chiunque. Eravamo terrorizzati.”
Una sera, gli shabiha, presero d’assalto il mercato, cercavano un manifestante in seguito ad una soffiata. Non lo trovarono ed iniziarono a minacciare la gente, in un ristorante spinsero un ragazzo a terra sparandogli ad una mano. Alla fine trovarono il manifestante e iniziarono a sparargli contro. Muhammad Haf, l’amico di Hossein, era lì vicino, e dopo aver afferrato un fucile da caccia, sparò agli shabiha mandandoli via. Questi erano stati i primi colpi sparati da un rivoluzionario a Saraqeb.
Gli shabiha sospesero i loro raid e gli attivisti cercarono di raccogliere fondi per le armi presso amici e familiari. Quando Hossein tornò a casa, sei piccoli gruppi ribelli erano attivi a Saraqeb, ciascuno guidato da uno degli attivisti originari. Milizie simili nacquero in tutto il paese e, anche se non esisteva un’organizzazione centrale, si definivano collettivamente Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army – FSA). A Saraqeb, la maggior parte delle unità erano ben considerate, anche se una delle unità si era data al banditismo per finanziarsi.
A livello nazionale, le milizie “buone”, insieme ad attivisti disarmati come Hossein, erano in maggioranza e facevano rapidi progressi. Su YouTube ufficiali dell’esercito siriano, con le carte d’identità in mostra, annunciavano la loro defezione. I ribelli armati iniziarono a erigere centinaia di posti di blocco. Una dopo l’altra molte piccole città caddero di fatto sotto l’autorità del FSA, mentre l’agitazione si andava diffondendo nelle grandi città.
“La rivoluzione continuerà, non importa quante persone moriranno, quanto bisognerà combattere. Saremo vittoriosi.”
Nella primavera del 2012, il regime rispose. Una brutale controffensiva si abbatté sulla Siria settentrionale e presto raggiunse la periferia di Saraqeb. Hossein e molti altri sostenitori della protesta fuggirono, ma Muhammad Haf decise di rimanere per guidare i membri del FSA nella difesa della città.
Le scuole furono chiuse e, dato che tutti i maschi in età militare erano sospettati di sostenere la rivoluzione, le famiglie mandarono i loro figli in altre province. I ribelli cominciarono a perdere i nervi. Nel gruppo di Haf ci furono dozzine di diserzioni, fino a che restarono solo 50 combattenti.
Le forze del regime iniziarono ad avanzare verso Saraqeb e l’invasione sembrava imminente. Una notte, l’attivista Iyad Jarrod, che stava girando un documentario a Saraqeb, visitò un accampamento ribelle. In un cortile, sotto un alberello di aranci, trovò Haf che stava fabbricando bombe artigianali utilizzando bombole di gas da cucina. Alcuni combattenti si erano raggruppati nelle vicinanze. I combattenti si lamentavano della mancanza di supporto internazionale e di carenza di armi. Jarrod chiese ad Haf delle diserzioni. “Una ritirata tattica!”, rispose, sorridendo.
“Immagina di essere martirizzato domani,” disse Jarrod. “Quali vorresti fossero le tue ultime parole?”
“Spero che quelli che sopravvivono continuino il nostro cammino, tutto qui.” Poi aggiunse “La rivoluzione continuerà, non importa quante persone moriranno, quanto bisognerà combattere. Saremo vittoriosi.”
Ho visitato Idlib per la prima volta nella primavera del 2012, in compagnia di attivisti locali. Entrammo in Siria a notte fonda, a piedi, poi guidammo per le strade del paese. C’erano zone abitate lungo la strada e la luce delle candele lasciava intravedere il movimento delle ombre nelle case. Dopo aver riposato in un villaggio su una collina, discendemmo verso Idlib. Un’alba rosa ci mostrava la città: baracche di ferro arruginite, fienili, case tozze. Qua e là, colonne di fumo scure salivano dai villaggi di pietra appena smantellati dall’esercito siriano.
A Saraqeb le strade erano desolate, i negozi chiusi. Una settimana prima, l’esercito aveva riconquistato la città. Le forze del regime avevano bivaccato in periferia e la gente del posto aveva paura di parlare. Alla fine riuscii a parlare con diverse persone che avevano assistito alla battaglia. Uno di questi era Mousab al-Azzo, che viveva in un quartiere operaio sul lato ovest. Azzo, un 39enne dai capelli grigi, era stato un popolare allenatore di calcio fino a quando le difficoltà economiche lo avevano costretto ad andare all’estero a lavorare riparando impianti di raffreddamento per pozzi d’acqua. Tornò in Siria poco prima della rivoluzione e presto divenne una presenza fissa alle proteste del venerdì. Era a casa quando il regime invase Saraqeb. “La battaglia è stata davvero terrificante,” ha detto. “Potevamo sentire i razzi e i bambini piangevano. Poi è stato tranquillo, e abbiamo visto arrivare i carri armati”.
“Siamo tutti siriani, perché lo state facendo?” Implorava, “Non siamo il vostro nemico. Non siamo Israele!”
Più di 30 combattenti del FSA sono stati uccisi nell’assalto. Haf e altri sopravvissuti si erano nascosti in edifici abbandonati. I soldati del regime andavano di casa in casa, in cerca di ribelli. Saccheggiarono la casa di Azzo e picchiarono suo padre. Il giorno seguente, qualcuno sparò un razzo dal quartiere, e il regime rispose bombardando una casa vicina a quella di Azzo. Poteva vedere, dalla finestra, come un suo vicino, un sarto, cercava sopravvissuti. La madre del sarto venne fuori. “Per favore, vi imploro,” disse piangendo. “Lui è solo un ragazzo, un lavoratore!” Un soldato minacciò di ucciderla. Lei strinse forte suo figlio, ma glielo strapparono dalla braccia, dicendo: “Tuo figlio è sporco.” Il sarto e suo cugino furono portati vicino ad una stazione di benzina ed uccisi.
Durante il resto della giornata, Azzo rimase nascosto in casa, dato che altri vicini erano stati portati alla stazione di benzina e uccisi. Il giorno dopo, i soldati saccheggiarono il mercato e diedero fuoco ai negozi mentre cercavano Haf. Durante la ricerca, trovarono suo fratello, Sa’ad, che era stato ferito mentre fuggiva dall’offensiva. La sorella di Haf, Wisal, che era con Sa’ad all’epoca, ricorda: “Hanno iniziato a picchiarlo brutalmente, mirando alla sua testa, alla sua faccia e alla sua ferita fresca.” Lei diceva al soldato che Sa’ad era solo uno studente universitario e non aveva mai imbracciato un’arma. “Siamo tutti siriani, perché lo state facendo?” Implorava, “Non siamo il vostro nemico. Non siamo Israele!”
Arrivarono gli uffciali e lei disse di non sapere nulla su dove si trovasse Haf. Uno degli ufficiali ordinò di dar fuoco alla casa. “Bruciatela!”, diceva piangendo. “Bruciate tutte le case!” E guardando verso Sa’ad aggiunse: “Ma lasciate in pace mio fratello minore.” Poi i soldati iniziarono a picchiare il figlio, Uday, un bambino di nove anni. “Hanno preso mio figlio proprio di fronte a me,” racconta. “Era così spaventato e senza parole.” Sa’ad e Uday furono entrambi trascinati fuori. Era quasi sera e l’elettricità era stata tagliata.
Udì l’urlo di un uomo. Era Sa’ad, gridando “Allahu akbar!” mentre i soldati gli chiedevano di dire “Bashar è grande”. Fu ucciso. Poi Uday iniziò a cantare “Allahu akbar!”. Anche lui fu ucciso.
Wisal si precipitò fuori nella strada buia. Le donne piangevano. I corpi erano sparsi ovunque. Riuscì a trovare Uday, con gli occhi aperti, come se fosse stato ancora vivo.
Sentiva che la propria giovinezza, l’idealismo e l’immaginazione venivano calati nella terra insieme al suo amico.
Per due giorni, l’esercito continuò ad uccidere. Haf e alcuni ribelli furono avvistati vicino a una fattoria fuori città. I soldati del regime aprirono il fuoco. Haf era corso dietro la fattoria gridando ai suoi uomini di scappare mentre lui avrebbe provveduto alla copertura. Fu ucciso pochi minuti dopo.
Quella sera, l’esercito lasciò Saraqeb. Hossein andò in moto alla casa di Haf, dove si erano radunati i partecipanti al funerale. Piangeva mentre seppellivano Haf. “Haf, ha fatto Saraqeb”, mi dice Hossein. Sentiva che la propria giovinezza, l’idealismo e l’immaginazione venivano calati nella terra insieme al suo amico.
Prima di lasciare il luogo, i soldati avevano filmato il cadavere di Haf. “O, fratello della puttana, o figlio del puttaniere, sei contento adesso?” disse un soldato alla video camera. “La futtuta fica di tua madre.”
Il regime passò a sedare le ribellioni in altre città, ma lasciò alcuni posti di blocco e un cecchino appostato su di una torre che dava al quartiere di Mousab al-Azzo, quello che era stato allenatore di calcio. Durante mesi sparò a qualsiasi cosa si muovesse. Uno dei vicini di casa di Azzo fu colpito mentre comprava generi alimentari. Una bambina di quattro anni, colpita alla spina dorsale, rimase paralizzata. Hossein, che viveva nelle vicinanze, poteva visitare la sua casa solo dopo il tramonto, vestito di nero. La giornalista Samar Yazbek, nel suo libro di memorie del 2016, “The Crossing” (La Frontiera), ha scritto: “Molti dei cittadini avevano demolito le mura che erano in comune tra una casa e l’altra, trasformandole in arterie stradali protette. Potremmo passare attraverso le case degli estranei, saltare fuori dalle finestre o scendere le scale fino al livello della strada, quindi scivolare attraverso il cortile portando le nostre scarpe.”
“Nel momento in cui l’esercito andò via iniziarono a bombardarci,” ricorda Hossein. “Forse 520 proiettili furono sganciati su Saraqeb, e correvamo in giro, scavando tra le macerie, ma per la prima volta sentivamo questa città come veramente nostra.”
Ma, una volta andate via da Saraqeb, i rivoluzionari sopravvissuti iniziarono a riorganizzarsi. Tra bancarelle bruciate e cumuli di macerie, i manifestanti riempirono le strade ancora una volta. I ranghi del FSA si gonfiarono di reclute che avevano perso i propri cari. Il Qatar e altri stati del Golfo avevano invaso la Siria con armi e denaro, e unità ribelli ringiovanite avevano invaso Aleppo e premuto alle porte di Damasco.
Cittadine come Saraqeb ora sembravano inconsistenti per la sopravvivenza del regime, e l’esercito si ritirava da Idlib in modo da avere rinforzi per combattere nelle città chiave. Nel novembre del 2012, i ribelli di Saraqeb cacciarono il cecchino, e l’ultimo posto di controllo del regime fu distrutto. Manifestanti euforici facevano suonare canzoni rivoluzionarie dagli altoparlanti delle auto. “Nel momento in cui l’esercito andò via iniziarono a bombardarci,” ricorda Hossein. “Forse 520 proiettili furono sganciati su Saraqeb, e correvamo in giro, scavando tra le macerie, ma per la prima volta sentivamo questa città come veramente nostra.”
Aveva poco tempo per festeggiare: la sua città doveva lottare con bombardamenti continui, mercati distrutti, quartieri devastati e famiglie senzatetto. I direttori e i factotum municipali erano fuggiti insieme ad agenti dell’intelligence e gli shabiha. I rifiuti si accumulavano, l’elettricità era intermittente, le scuole erano aperte in modo irregolare.
Gli attivisti del comitato locale dei manifestanti discutevano su come ottenere elettricità e nutrire le persone. Decisero di istituire un corpo di 12 membri per governare Saraqeb e lo chiamarono Consiglio Locale. Hossein fu nominato il suo primo presidente.
Non molto tempo dopo, presentarono ad Hossein Kinda al-Kassem, una cognata di suo fratello. Aveva studiato fisica all’università e stava insegnando la materia ai bambini delle scuole inferiori. Trovò il coraggio di chiedere la sua mano; si sposarono il 15 marzo 2013, nel secondo anniversario della rivolta di Siria.
Nonostante la sua nuova vita da sposato, Hossein continuò a lavorare a lungo per cercare di rimettere in piedi i servizi a Saraqeb, stringendo rapporti con attivisti di altre città che stavano mettendo in atto esperimenti di autogoverno. In risposta alle esigenze che sorgevano in tempi di guerra, i Consigli Locali erano sorti spontaneamente in centinaia di viallaggi e città liberate. Hossein ed i suoi compagni non avevano nessun modello per formare un governo dal basso, ma capirono che chiunque avesse governato avrebbe avuto bisogno di un forte appoggio pubblico. Hossein arrivò alla conclusione che i membri del Consiglio Locale sarebbero dovuti essere eletti attraverso libere elezioni.
Non tutti i residenti avevano abbracciato la causa di una Saraqeb democratica. I primi segnali di resistenza arrivarono dal mercato, dove emergevano i DVD che rappresentavano le imprese dei jihadisti che combattevano le truppe americane in Afghanistan. Poi, durante i giorni nei quali c’era stato il cecchino, Hossein aveva cominciato a notare combattenti barbuti in giro per la città, che si tenevano in disparte e non portavano la bandiera rivoluzionaria a tre stelle. Il loro capo era un uomo corpulento e gioviale, noto come Abu Anas. Negli anni ‘90, Abu Anas, insegnante di letteratura araba, aveva fondato una cerchia di attivisti dediti all’opposizione di idee comuniste – allora popolari nelle università – e alla difesa di una dottrina purista di Islam politico chiamata salafismo. Dopo il 2003, alcuni di questi uomini erano andati in Iraq per combattere gli Stati Uniti; al ritorno, erano stati imprigionati dal regime di Assad. In una serie di amnistie nel 2011, la maggior parte di questi combattenti erano stati rilasciati ed erano tornati a Saraqeb.
Con lo scoppio della rivoluzione, Abu Anas e i salafiti evitavano le proteste del venerdì. “Non volevamo che il regime dicesse che questa è una rivoluzione dei Fratelli Musulmani e di Al-Qaeda”, mi ha detto Abu Anas. Tuttavia, “Avevamo iniziato a comunicare con i nostri vecchi amici,” aveva aggiunto. Un giorno, i fondamentalisti di tutto il paese si incontrarono nella casa di Abu Anas a Saraqeb e lanciarono formalmente un movimento salafita armato. Si chiamarono Uomini liberi del Levante, o Ahrar al-Sham.
(“Nessuno aveva realizzato elezioni generali prima in queste condizioni”, ha detto Hossein. “Ma poi ho pensato, perché no? Abbiamo questa possibilità di imparare dall’esperienza, di creare qualcosa per tutta la Siria.” Illustrazione di Bill Bragg)
Mentre la rivoluzione si militarizzava, Ahrar al-Sham rimaneva sotterranea. Solo dopo che le forze del regime avevano invaso Saraqeb, i fondamentalisti avevano iniziato a mostrarsi in pubblico. “Fummo coscienti sin dall’inizio che questo regime non sarebbe potuto essere sconfitto pacificamente”, mi ha detto Abu Anas. “Ma volevamo che le persone arrivassero a quella conclusione da sole.” A differenza di Hossein e della sua schiera, i fondamentalisti di Ahrar al-Sham erano mercenari, con acute menti per la strategia politica. Con fondi provenienti dal Qatar e da donatori privati, Ahrar al-Sham acquistò armi pesanti e attirò reclute. Nel giro di pochi mesi, divenne il gruppo ribelle più potente di Saraqeb. In poco tempo, iniziò ad apparire in tutta la Siria.
All’inizio del 2013, un uomo di Saraqeb che stava bevendo alcol fu rapito e picchiato. Non molto tempo dopo, uomini col volto coperto piombarono nell’ufficio di un’organizzazione di base, chiedendo alle impiegate di coprire i capelli. In seguito gli attivisti stabilirono una corte locale per verificare i crimini commessi dai ribelli, Ahrar al-Sham riuscì a mettere nella corte tre sceicchi religiosi – convertendola dal mattino alla sera in una corte che seguiva la Sharia.
Un pomeriggio, i fondamentalisti si presentarono nel mercato con due prigionieri. Un combattente con i capelli lunghi dichiarò che uno di loro era colpevole di aver permesso a sua figlia di risposarsi troppo presto dopo un divorzio. Il prigioniero fu fatto inginocchiare. Mentre due combattenti lo controllavano, un uomo dal volto coperto gli infliggeva violenti colpi di frusta, contando ad alta voce. Il prigioniero si contorceva come un pesce fuori dall’acqua, piangendo, “O Dio!”. Quando si arrivò alla cinquantesima frustata fu il turno dell’altro prigioniero – il genero – e ripresero a contare.
“Sapevamo molto bene che, se avessimo lasciato un vuoto nei servizi, sarebbe stato riempito dall’estremismo.”
Hossein e i suoi compagni attivisti erano indignati. Sebbene molti di loro fossero devoti, erano giunti alla conclusione che la fede era una questione di cuore, non di stato. All’epoca, Mousab al-Azzo mi disse: “Stanno dirottando la rivoluzione. È come una guerra fredda qui.” A una protesta del venerdì di febbraio 2013, Hossein e centinaia di altri manifestanti marciarono lungo la strada del mercato, chiedendo la caduta del regime. Poi alcuni manifestanti, tra cui Hossein, intonarono un nuovo slogan che includeva esplicitamente il secolarismo: “Saraqeb è uno stato civile! Vogliamo uno stato civile!” Un membro di Ahrar al-Sham aggredì un manifestante, minacciando: “Avremo il nostro califfato con la forza!” I fondamentalisti calpestarono la bandiera a tre stelle. Per la prima volta dall’inizio della rivoluzione, una protesta a Saraqeb si divideva. I dimostranti laici si spostarono, sventolando la rivoluzionaria bandiera a tre stelle, gridando per la libertà e l’unità. I fondamentalisti marciavano avanti, issando bandiere bianche e nere con la scritta “Non c’è Dio all’infuori di Allah”.
Nel mezzo di questa crescente divisione, il fervore rivoluzionario di molti residenti di Saraqeb si stava affievolendo, a causa anche degli implacabili bombardamenti del regime e la catastrofe economica. I fondamentalisti tentavano di ottenere il sostegno popolare evidenziando la corruzione nei ranghi della FSA; vicino a dei villaggi di montagna, un noto commando ribelle aveva creato un posto di controllo gestito da delinquenti e motoristi saccheggiatori. Le corti religiose come quella di Saraqeb offrivano una giustizia affidabile, anche se dura, mentre i tribunali laici della regione erano pieni di conflitti e inefficienza. Ma per la maggior parte dei cittadini il problema principale era il pane, che il regime aveva fornito a suo tempo a prezzi agevolati alle famiglie povere. Ahrar al-Sham aprì una panetteria a Saraqeb e iniziò a vendere pane a prezzi bassi. I fondamentalisti avevano iniziato a farlo in molte città siriane, consentendo così di emarginare o espellere rivoluzionari laici; i membri del Consiglio Locale di Saraqeb erano determinati a sconfiggere i fondamentalisti. Hossein ricorda: “Sapevamo molto bene che, se avessimo lasciato un vuoto nei servizi, sarebbe stato riempito dall’estremismo.”
Il Consiglio Locale vide che la linea elettrica del governo attraversava Saraqeb e arrivava ad Idlib, il capoluogo di provincia, rimasto sotto il controllo di Assad. Hossein contattò il governatore minacciandolo: se non avessero continuato a fornire grano alla panetteria pubblica, i rivoluzionari avrebbero tagliato la linea elettrica. I rifornimenti arrivarono ed i panettieri ricominciarono a lavorare, in collaborazione con il Consiglio Locale.
Il Consiglio Locale continuò ad imitare le mosse dei fondamentalisti, e la rivalità diviene l’ossessione di Hossein. Quando Ahrar al-Sham aprì una clinica, Hossein raccolse donazioni per l’ospedale pubblico. Quando Ahrar al-Sham iniziò a dare aiuti alle vedove, lui chiese soldi per fare lo stesso. Ahrar al-Sham aveva ricchi donatori in Kuwait e in Qatar; Hossein e i suoi compagni erano costretti ad appellarsi a fonti occidentali, tra cui anche il governo degli Stati Uniti, che dava al Consiglio Locale salari e attrezzature da costruzione.
Ahrar al-Sham accusava pubblicamente Hossein e il Consiglio Locale di collaborare con i “crociati” americani. Iniziarono ad apparire nuovi gruppi fondamentalisti, tra cui un gruppo che aveva combattuto in Iraq: era Jabhat al-Nusra, ramo siriano di Al-Qaeda. Al-Nusra è più radicale di Ahrar al-Sham: vieta le sigarette, vuole le donne coperte, persino i manichini femminili nelle vetrine dei negozi sono vietati. Dal punto di vista dei laici, però, entrambi i gruppi cercano di imporre le loro restrizioni sulla popolazione.
Uomini mascherati percorrevano Saraqeb, parlando con accenti stranieri. Di notte si udivano raffiche di colpi di arma da fuoco e al mattino, notizie di giovani scomparsi. Gli amici di Hossein lo avvisarono, consigliandogli di fuggire, ma lui rifiutò. Lasciare il paese non era mai stata un’opzione per Muhammad Haf, o per gli altri suoi compagni uccisi. Abbandonare la città ora, disse, sarebbe stato un tradimento.
Hossein concentrò invece le sue energie sul coordinamento dei servizi municipali. Un giorno, nell’aprile 2014, era andato fuori città per discutere della mancanza di rete elettrica, insieme a membri di varie fazioni armate. A un posto di blocco sulla strada deserta, venne scaraventato fuori dalla sua auto, bendato e gettato in un baule. In un vicino mulino, un tipo giordano proveniente da una fazione radicale lo interrogò sui finanziamenti statunitensi al Consiglio Locale. Il suo telefono e il laptop furono perquisiti, e lui fu messo in un capannone, chiuso a chiave.
Nel carcere del regime, era in compagnia di altri. Ora si stava preparando, in solitudine, per il momento in cui sarebbe stato trascinato via e scaricato in un fosso.
“Ero a terra, le mani legate dietro la schiena,” ricorda. “E’ stato atroce.” Portava un berretto di lana sul viso, passando i giorni nell’oscurità. Occasionalmente, un uomo entrava e gli dava un sandwich, ordinandogli di mangiare. Ma per lo più era solo. Poteva sentire il canto degli uccelli, il verso del bestiame. Pensava a casa, a sua moglie e ai suoi compagni … Nel carcere del regime, era in compagnia di altri. Ora si stava preparando, in solitudine, per il momento in cui sarebbe stato trascinato via e scaricato in un fosso.
Un giorno la porta si aprì e gli fu detto che era libero. Arrivato a casa, scoprì che i fondamentalisti avevano calcato troppo la mano: il suo rapimento aveva scatenato proteste a Saraqeb. La sua prigionia era durata solo sei giorni, ma Hossein era profondamente scosso. In passato, aveva dovuto sfuggire solo a una manciata di shabiha; ora aveva molti nemici e vivevano accanto a lui. Quella sera, Hossein si dimise dal Consiglio Locale.
Nella primavera del 2015, una coalizione ribelle che includeva Al-Qaeda e aveva un forte sostegno del Golfo catturò la città di Idlib. Questo innescò l’intervento russo in Siria, e ben presto due forze aeree iniziarono a solcare il cielo sopra Saraqeb. Ovunque la gente poteva sentire il basso rombo di un aereo che si avvicinava e, di conseguenza, scappava. Alcune settimane, ben 25 barili bomba al giorno cadevano sulla città, e spesso i residenti non capivano se a bombardarli era Mosca o Assad. Una volta, i ribelli riuscirono ad abbattere un elicottero da trasporto russo e, secondo gli operatori umanitari locali, la Russia decise di vendicarsi con 165 attacchi aerei, su scuole, negozi, banca del sangue, cimitero. Il regime di Assad chiese agli abitanti della città di restituire i corpi dei piloti, e avvertì, “Aiutateci a riportarli indietro se non volete altra sofferenza.”
Mentre le perdite di Saraqeb si accumulavano, i residenti aprivano un secondo cimitero per ospitare i morti. I membri del Consiglio Locale si sforzavano di tenere a galla la città mentre cercavano di rimanere in vita loro stessi. Una volta, mentre Hossein stava visitando la sede proncipale del Consiglio Locale, un attivista dell’opposizione venne alla porta. La visita dell’attivista era stata programmata per quel giorno, ma lui aveva follemente annunciato i suoi piani su Facebook. Gli uomini presto udirono il lontano rumore di una mannaia. Hossein aveva acceso un walkie-talkie; si annunciava un nuovo attacco aereo. Gridò: “Uscite fuori!”. I walkie-talkie emettevano un suono gracchiante, “Barili bomba!”. Attimi dopo, il mondo esplose. I vetri delle finestre dell’edificio schizzarono verso l’esterno; nell’aria tanta polvere. “C’era un silenzio incredibile,” ricorda Hossein. Guardò le sue gambe e vide un uomo che si afferrava ad esse. Quando Hossein uscì dall’edificio vide che il tetto era volato via. Il suo successore come presidente del Consiglio Locale, Nihad Sheikh Deeb era rimasto ucciso.
Durante i quattro anni successivi, il regime colpì il Consiglio Locale cinque volte. Avevo anche diversificato le sue tattiche. Nell’aprile 2013, un elicottero lanciò tre missili sul quartiere in cui vivevano Hossein e Azzo. La gente vomitava e aveva perso conoscenza, una donna fu trasportata in ospedale di corsa, aveva la schiuma alla bocca, non sopravvisse. Secondo un report delle Nazioni Unite, un’autopsia indicava che la donna aveva “dato positivo” al gas nervino sarin.
I bombardamenti a Saraqeb divennero così di routine che gli attivisti svilupparono un sistema di allarme preventivo ma piuttosto efficace. Se un aereo decollava da Aleppo in due minuti stava sorvolando le montagne dell’est, partiva una chiamata alle vedette della provincia di Idlib. Se passava sulla città di al-Hader, la vedetta sapeva che stava arrivando a Saraqeb. Gli attivisti mettevano in moto un passaparola con walkie-talkie e cellulari. I ribelli sparavano all’aria. Alcune persone si recavano fuori dalla città per andarsi a nascondere nei campi e gli uliveti; dopo l’attacco, tornavano per verificare se le loro case fossero ancora in piedi. Il regime venne a conoscenza del fatto che i residenti scappavano e inviava un Albatross L-39 per colpire i veicoli in fuga. I residenti iniziarono allora a fuggire a piedi, o, se era buio, nelle macchine ma con i fari spenti. “Io stesso l’ho fatto un centinaio di volte”, dice Hossein.
Quasi ogni persona di Saraqeb con la quale ho parlato conosceva qualcuno che era morto nelle incursioni aeree. Tuttavia, parlava della sua città sventrata e affamata con un senso di speranza, persino meraviglia. Dal 2016, Saraqeb è stata libera dall’autorità del governo per quasi quattro anni e in quel periodo la città ha sperimentato una fioritura artistica e un dibattito politico. Prima della rivoluzione, le frazioni di Idlib mancavano di un giornale locale. Ora dozzine di città liberate pubblicano i loro settimanali e mensili. In Saraqeb, la pubblicazione principale era The Olive, che ha anche riportato chiari dibattiti sul ruolo dell’Islam. Uno scrittore sostiene che “il secolarismo non è interessato alla relazione tra gli individui e la loro religione, e non interferirebbe mai in quella materia.” Un attivista ha iniziato una rivista mensile dedicata alle idee del pensatore islamico del XIX secolo Abd al-Rahman al-Kawakibi; un altro rivoluzionario ha lanciato un periodico bimestrale per bambini. Gli attivisti hanno fondato Radio Alwan, una stazione con notizie e commenti, con un mini trasmettitore FM sul retro di un camioncino e spostandosi lungo le strade del vicinato.
Un muro vicino alla casa di Hossein è stato dipinto con un versetto del poeta palestinese Mahmoud Darwish: “Siamo vivi, siamo qui, e il sogno continua”.
Tra gli edifici semidiroccati sorgono istituzioni prima sconosciute a Saraqeb: un forum di poesia, una compagnia di commedie, una compagnia teatrale. Ispirato da Bertolt Brecht, un ensemble di attori mette in scena opere che hanno rotto il quarto muro, attirando il pubblico verso racconti che offrono critiche allo sciacallaggio della guerra ed altre ingiustizie. Un collettivo di attivisti dipinge pareti cittadine sfregiate da proiettili intorno alla città, intonacando il cemento scrostato in verdi e blu luminosi con riflessioni filosofiche e frammenti di versi. In poco tempo, le mura della città sono coperte di messaggi per i propri cari, e la gente del posto comincia a chiamare l’iniziativa i “quaderni degli innamorati”. Un muro vicino alla casa di Hossein è stato dipinto con un versetto del poeta palestinese Mahmoud Darwish: “Siamo vivi, siamo qui, e il sogno continua”.
Mousab al-Azzo imparò il montaggio di video e iniziò a filmare le conseguenze degli attacchi aerei russi: i soccorritori che estraevano i corpi dalle macerie. Piangeva, poi si ricomponeva e caricava i video su YouTube. Era anche diventato corrispondente per una stazione TV collegata alla FSA e contribuiva con articoli freelance alla Olive. Non era pagato per i suoi interventi, quindi si sosteneva la sua famiglia lavorando in una pasticceria.
La forza di questo movimento rivoluzionario riusciva ad attenuare l’impatto di Ahrar al-Sham. Quasi tutti i tentativi da parte del gruppo di imporre il proprio dominio su Saraqeb gli si erano ritorti contro; quando provava a creare un “senato” per minare il Consiglio Locale, gli attivisti prendevano in mano il controllo di quella istituzione. Nel 2017, Ahrar al-Sham ha iniziato ad adottare a malincuore la rivoluzionaria bandiera a tre stelle.
Allo stesso tempo, al-Nusra, ben finanziata e ben organizzata, inghiottiva le zone della campagna di Idlib. All’inizio, con cautela, e poi con crescente disinvoltura, calava sulle organizzazioni popolari: i giornali rivoluzionari venivano chiusi e gli attivisti perseguitati finivano in esilio. Di fronte alla prospettiva dell’estinzione, i Consigli Locali decisero di iniziare a fluttuare nell’orbita di al-Nusra.
Dal 2017, Saraqeb è uno dei pochi posti nella provincia di Idlib non conquistato da al-Nusra. L’organizzazione alle volte ha condotto incursioni in città – ad un certo punto ha sequestrato il trasmettitore di Radio Alwan – ma ha anche esercitato un potere soft distribuendo pane e vestiti. Saraqeb, tuttavia, aveva uno dei pochi Consigli Locali che riscuotevano le tasse, quindi poteva permettersi di tenere il ritmo nella fornitura dei servizi.
Eppure, anche se da entrambi i lati si distribuivano aiuti, questi non erano sufficienti. La maggior parte dei residenti lavorava per pochi giorni, o non lavorava affatto. Passava le notti a lume di candela, e qualche volta apriva il rubinetto e lo trovava asciutto. Il malcontento contro entrambi i lati cresceva. (Una volta, un editoriale di Olive chiede: “Dov’è il resto del denaro? Per cosa lo stanno spendendo?”). All’inizio del 2017, una campagna su Facebook chiede l’elezione pubblica del Consiglio Locale, per monitorare meglio la spesa per gli aiuti della quale doveva essere responsabile la leadership rivoluzionaria – nessuna tassazione senza rappresentanza.
Dapprima Hossein era scettico. “Nessuno aveva condotto elezioni generali prima in queste condizioni,” ha detto. “Ma poi ho pensato, perché no? Abbiamo questa possibilità di imparare dall’esperienza, di creare qualcosa per tutta la Siria,”
Man mano che gli elettori si recavano ai seggi, il 18 luglio 2017, Hossein si stupiva non solo del risveglio politico della sua città, ma dell’audacia di tutto ciò. E così il mattino dopo, quando i ribelli dell’FSA fecero irruzione nella sala riunioni per avvertire che gli islamisti stavano attaccando Saraqeb, Hossein sentì una perdita più profonda del fallimento di un’elezione, o della demolizione di casa sua. Sembrava essere una crudele rivendicazione del messaggio centrale del governo siriano, che lui non voleva accettare ma che gran parte delle città aveva abbracciato: l’unica alternativa a Bashar al-Assad era Al-Qaeda.
Hossein e i suoi amici si raggrupparono nella fattoria dove avevano celebrato le elezioni. Rimase sveglio, ascoltando il tonfo del fuoco dell’artiglieria. Al mattino, giunse la notizia che al-Nusra stava dando la caccia agli uomini appartenenti ad Ahrar al-Sham. La lotta aveva l’apparenza di una semplice disputa tra fazioni, ma Hossein sapeva che per al-Nusra era un pretesto per abolire il Consiglio Locale e instaurare una nuova dittatura.
Molti combattenti di Ahrar al-Sham fuggirono; alcune decine di sostenitori si chiusero in un bunker nel quartier generale del FSA, in centro. L’unica speranza per Saraqeb, secondo Hossein, era quella di convincere i membri di Ahrar al-Sham a lasciare la città, mantenendo lo scontro il più lontano possibile. Andò verso il bunker.
Le strade erano deserte. Passò davanti alla sede del Consiglio Locale e vide uomini armati col volto coperto, erano di al-Nusra e stavano distruggendo la bandiera rivoluzionaria. Arrivato al quartier generale del FSA, un edificio stretto in un cortile chiuso, scese nel bunker e trovò il capo del battaglione Ahrar al-Sham, alcuni dei suoi combattenti e alcuni funzionari del Consiglio Locale. “Stavo cercando di ragionare con loro” ricorda Hossein “Ma erano terrorizzati e non si sarebbero mossi.”
In breve, al-Nusra riuscì a scoprire la presenza di Ahrar al-Sham nel bunker e circondò il quartier generale. I suoi uomini iniziarono a scalarne le mura. Alcuni combattenti dal viso coperto portavano gigantesche bandiere di Al-Qaeda.
“Saraqeb è libera, e libera rimarrà!”
La rivoluzione di Saraqeb era sopravvissuta agli assalti di jet e carri armati del regime, ma ora rischiava di cadere nelle mani di una dozzina di uomini armati. Hossein mandava messaggi ad amici, parenti, a tutti quelli che conosceva, chiedendo aiuto. Altri attivisti lanciavano l’allarme sui walkie-talkie. Presto, dagli altoparlanti delle moschee intorno alla città gridavano a tutto volume: “Gioventù di Saraqeb: venite al quartier generale dell’Esercito Siriano Libero! Difendete la rivoluzione!”
Mousab al-Azzo ascoltò la chiamata. Qualche mese prima aveva aperto il Saraqeb Sports Café e durante le elezioni ne aveva offerto lo spazio, invitando i candidati a tenere dibattiti e fare discorsi. Dopo aver nascosto i narghilè da quelli di al-Nusra, andò verso il centro. Le strade cominciarono a riempirsi di residenti con la bandiera rivoluzionaria a tre stelle. Qualcuno nella folla riprendeva col suo cellulare; Azzo si rivolse alla telecamera con un messaggio per al-Nusra. “Abbiamo rovesciato il governo più tirannico del mondo! Possiamo fare lo stesso con voi. Il nostro sistema di governo rimarrà civile. Non permetteremo a una fazione armata di governarci!”, urlava. Uomini in motocicletta lo stavano sorpassando. “Saraqeb è libera, e libera rimarrà!” Esclamò Azzo. “Le istituzioni sono nostre. Non appartengono a voi.”
La folla correva attraverso gli stretti vicoli del centro, arrivando al quartier generale della FSA. Facevano cori contro i combattenti di al-Nusra, “Fuori!” Gli uomini armati appollaiati sul muro sparavano. La folla faceva pressione contro il muro, a pochi centimetri dagli uomini armati, gridando “Allahu akbar!”. Ripudiando la pretesa di legittimità di al-Nusra. Erano ormai trascorse cinque ore da quando Hossein era arrivato al quartier generale, e per la prima volta in quella giornata provava un’ondata di speranza.
(Un selfie di Hossein in uno dei dibattiti elettorali a Saraqib. Hossein ha contribuito a organizzare i dibattiti, trasmessi in diretta su Facebook.)
Un uomo armato di al-Nusra sparò a un manifestante a una gamba. Azzo si spinse attraverso la folla e saltò davanti alla porta del bunker. Si tolse la camicia. Il combattente puntò la sua arma e gli urlò di muoversi da lì. Azzo rifiutò e gridò: “Per te, Saraqeb!” Il sicario sparò e Azzo cadde a terra.
Un camion carico di combattenti di al-Nusra sfrecciava da una strada laterale, ma i manifestanti lo circondarono. I loro canti continuarono fino a quando, all’improvviso, il pandemonio si scatenò al suono di una mitragliatrice: al-Nusra stava sparando puntando alla testa della gente. Hossein urlava: “Non sparate!” I combattenti al-Nusra si mossero verso il bunker, ma i manifestanti brulicavano davanti all’ingresso. Un uomo armato di al-Nusra sparò a un manifestante in una gamba. Azzo si spinse attraverso la folla e saltò davanti alla porta del bunker. Si tolse la camicia. Il combattente puntò la sua arma e gli urlò di muoversi da lì. Azzo rifiutò e gridò: “Per te, Saraqeb!” Il sicario sparò e Azzo cadde a terra.
Il fratello di Azzo, che era tra la folla, si precipitò al suo fianco. I manifestanti, spaventati, scapparono via, permettendo ad al-Nusra di entrare nel bunker. I sicari arrestarono il leader di Ahrar al-Sham e si ritirarono dai locali. Azzo venne portato di corsa all’ospedale, ma i medici non riuscirono a rianimarlo.
Saraqeb si trovava ora sotto il controllo di al-Nusra. La gente vagava per le strade, agitata e insicura sul da farsi. Un’ambulanza veniva dall’ospedale, trasportando il corpo di Azzo, la folla si radunò dietro di essa, sollevando bandiere rivoluzionarie e una fila di macchine e motociclette che suonavano il clacson si formò spontaneamente. La processione avanzava lentamente per le strade buie fino al cimitero dei martiri. I partecipanti al funerale pregavano. Mentre Azzo, coperto dalla bandiera a tre stelle, veniva seppellito.
Tornato alla fattoria, Hossein si sentiva vuoto. Le elezioni, che si erano tenute solo 24 ore prima, sembravano un lontano ricordo. Dopo sei anni di lotte e tanti amici scomparsi o morti, la sua città aveva sostituito una forma di tirannia con un’altra. Lasciò questi pensieri e controllò Facebook. Le persone stavano lasciando dediche sulla pagina di Azzo: fotografie di lui che allenava la squadra di calcio o che cantava durante proteste. Azzo, che non era andato all’università, aveva scritto di essersi formato presso “Rivoluzione Siriana”. Hossein postò un tributo con le ultime parole pronunciate dall’amico e l’hashtag Azzo: #ForYouSaraqeb.
“I Saraqebis non temono la morte! Non abbandoneremo la rivoluzione!” Un coro di voci ripetette le sue parole. I manifestanti urlavano: “Il tuo sangue, o Mousab, non ti dimenticheremo mai!” E “Ci sacrificheremo per te, o martire!”
La mattina dopo, guardò di nuovo Facebook e vide che gli attivisti stavano usando #ForYouSaraqeb per denunciare al-Nusra e, incredibilmente, chiedevano un’altra protesta. Si precipitò in centro. Per sua grande sorpresa, la folla era raddoppiata rispetto al giorno precedente. La massa di corpi si sollevava verso il tribunale, che era la sede di al-Nusra. Un giovane, alzando il braccio, gridava: “I Saraqebis non temono la morte! Non abbandoneremo la rivoluzione!” Un coro di voci ripetette le sue parole. I manifestanti urlavano: “Il tuo sangue, o Mousab, non ti dimenticheremo mai!” E “Ci sacrificheremo per te, o martire!”
Gli uomini armati di al-Nusra stavano sul tetto del tribunale. Uno di loro aveva indicato i manifestanti, e un manifestante gridò: “Sta per spararci!” La folla iniziò a cantare “Shabiha!” Un giovane portava un cartello con su scritto “Saraqeb è per i civili, non vogliamo che governino le armi!”
La tensione era nell’aria: gli uomini di al-Nusra spararono di nuovo sulle teste dei manifestanti che si ripararono dietro le macchine parcheggiate. Ma poi cominciarono a tornare lentamente verso il tribunale, e presto la strada fu di nuovo piena.
Hossein contò dieci combattenti di al-Nusra. Nonostante le uniformi mimetiche e le bandoliere, sembravano sopraffatti, persino terrorizzati, dalla manifestazione di tenacia alla quale stavano assistendo. Apparve allora un camioncino di al-Nusra che parcheggiò. Uno dopo l’altro, i combattenti di al-Nusra scesero dal tetto e, mentre andavano via, la folla cantava “Shabiha! Shabiha!”
Al-Nusra non inviò rinforzi. Non poteva rischiare un ulteriore contraccolpo popolare: il gruppo aveva di recente affrontato proteste nelle città vicine. I dimostranti salirono in cima al tribunale, sotto un cielo color ambra, e issarono la bandiera rivoluzionaria.
Durante l’anno successivo, Saraqeb rimase sotto il controllo dei ribelli e del Consiglio Locale, circondata dalla presenza di Al-Qaeda. C’erano isole di resistenza simili nelle vicinanze. Tuttavia, laddove al-Nusra non riuscì a conquistare il controllo militare diretto di queste aree, ricorse a sotterfugi, seminando terrore. Come ai tempi degli shabiha, gli attivisti venivano pedinati. Medici e operatori umanitari venivano rapiti. Hossein ricevette minacciosi messaggi anonimi: “O secolare, o infedele, sarai privato della terra benedetta del Levante.” Rimase nascosto, evitando tutte le riunioni.
Poi un giorno ricevette una chiamata da un amico terrorizzato: aveva sentito che al-Nusra stava cospirando per rapire Hossein. Un altro attivista escogitò un piano di fuga mentre Hossein si nascondeva nelle case degli amici. Infine, fece le valigie, salutò i genitori e con sua moglie salì su un furgone della distribuzione di grano. Il veicolo superò i checkpoint di al-Nusra e nel pomeriggio lui e sua moglie arrivarono in Turchia.
Anche da rifugiato, Hossein era ribelle. “Al-Nusra non mi spaventa – spiega -Se sto per morire, morirò. Ma non voglio mettere in pericolo chi mi sta intorno.” Il suo esilio era temporaneo, insiste oggi, e pensava di tornare a Saraqeb non appena le condizioni fossero state idonee. Di ritorno a casa, i suoi compagni mantenevano ancora la città sotto il controllo della Rivoluzione, nonostante le continue minacce di al-Nusra.
Ma Saraqeb si trovò a dover affrontare un pericolo ancora maggiore. Gli USA e i loro alleati avevano sconfitto l’isis nella Siria orientale e l’intervento russo aveva trasformato le sorti del regime. Assad era all’offensiva e le potenze straniere iniziavano ad abbandonare i ribelli. Il regime iniziava la riconquista del territorio in mano all’opposizione e, a gennaio 2018, spostò la sua attenzione sulla provincia di Idlib. Mentre le forze governative imperversavano nella campagna meridionale, 100.000 persone fuggivano. L’obiettivo immediato del regime era quello di assicurarsi un territorio che conduceva a due città lealiste più a nord, un percorso che passava per Saraqeb.
Verso la fine di gennaio, il regime e i russi iniziarono a colpire Saraqeb con un furore senza precedenti. “La situazione era al di là di ogni comprensione,” racconta Ahmed al-Nashmi, proprietario di un’autolavaggio. “I jet hanno condotto fino a 30 attacchi al giorno e la terra tremava per i barili bomba e le bombe a grappolo. Siamo stati senza elettricità per una settimana.” “Indescrivibile”, ricorda Baleigh Suleiman, un giornalista locale. “Di notte, potevo sentire attacchi aerei e razzi che colpivano ovunque in città, ma solo al mattino riuscivo a sapere quali erano stati gli obiettivi.”
“Abbiamo deciso di difendere la nostra città fino alla morte,”
Gli aerei militari colpivano le cliniche e i primi soccorritori. Bombardarono un college privato e un ente di beneficenza locale, attaccarono un mercato di patate e, quando le vittime venivano portate di corsa in un ospedale sostenuto da Medici Senza Frontiere, l’ospedale è fu bombardato. Cinque le persone rimaste uccise. Il personale spostò le vittime in un bunker sotterraneo, dove i medici si prendevano cura di loro mentre pioveva fuoco. Saraqeb si era svuotata: le famiglie scappavano nei campi o si rifugiavano in altre città. La linea del fronte del regime era a sole otto miglia di distanza. Per la prima volta, molti cittadini disperati presero le armi, giurando di proteggere la loro città a fianco dell’Esercito Siriano Libero. Sotto il nome di “Esercito Libero di Saraqeb”, scavavano trincee e riempivano sacchi di sabbia. “Abbiamo deciso di difendere la nostra città fino alla morte,” diceva Suleiman.
Durante la notte del 4 febbraio 2018, gli elicotteri del regime lanciarono due cilindri al cloro in un sobborgo di Saraqeb. Residenti avvelenati urlavano agonizzanti mentre i soccorritori bagnavano i loro corpi con l’acqua.
Il mattino seguente, una svolta miracolosa. Un convoglio di carri armati turchi e Humvee stava entrando in Siria per stabilire un avamposto di osservazione vicino al fronte del regime. La presenza turca aveva fermato l’avanzata delle forze di Assad e il regime aveva rivolto la sua attenzione alla conquista di enclave dell’opposizione in altre parti del paese. Per il momento, Saraqeb era stata risparmiata.
Oggi la rivoluzione in Siria è di fatto finita, così come la guerra, tranne che nella provincia di Idlib, che il regime sta momentaneamente risparmiando. Al-Nusra esercita il proprio dominio su gran parte della provincia, anche se ha fallito in alcune città come Saraqeb. Ma a maggio gli Stati Uniti hanno deciso di congelare circa 200 milioni di dollari in aiuti alla provincia. Così presidente Trump “Lasciamo che altri si occupino di questo ora. Torneremo nel nostro paese.”
I Consigli Locali, le stazioni radio e le organizzazioni benefiche – nucleo della resistenza ad al-Nusra – hanno così perso i loro finanziamenti. La popolazione di Idlib è raddoppiata, arrivando a tre milioni di persone: i siriani in fuga dal regime vi hanno cercato rifugio, ma ora non hanno un posto dove fuggire. A settembre, la Turchia ha firmato un accordo con la Russia per risparmiare la provincia a seguito di un violento attacco, e in cambio si è impegnata a costringere le fazioni jihadiste come al-Nusra a lasciare Idlib. Ma nessuno sa se sia possibile. Se Ankara fallisse, il regime di Assad inizierebbe subito l’offensiva contro Idlib e secondo l’inviato delle Nazioni Unite, Jon Egeland, l’assalto causerebbe “una sofferenza mai vista prima in questo conflitto”.
Ad agosto, mentre le truppe di Assad avanzavano nella campagna meridionale della provincia, attraversai di nuovo l’area di Idlib. Sull’autostrada troneggia un cartellone con un campo di gigli, accanto alle parole “ovunque siate, fiorite”. Abbiamo superato piccole città lungo la strada, negozi affastellati, rifiuti che bruciavano qua e là. Vasti campi color ruggine, un tempo pieni di colture, oggi affollati di tende macchiate di fango, stendibiancheria, sacchetti di plastica, bambini che rovistano su cumuli di rifiuti. Quando il regime riconquista un territorio in Siria, alla gente viene data una scelta: andare a Idlib o arrendersi. In un sobborgo di Damasco, gli attacchi aerei erano stati così incessanti che i residenti avevano alzato la bandiera del regime e cantato: “Non vogliamo più la libertà!” I campi di Idlib brulicano di siriani che non possono, o non vogliono vivere sotto tale autorità.
Passammo un posto di blocco di al-Nusra, tutti indossavano passamontagna nero. Il traffico era denso e non venimmo fermati. Attraversammo villaggi di case mezze distrutte dalle bombe. Una bandiera dell’ Isis dipinta su un muro. I checkpoint cominciavano ad apparire più spesso, circondati da rovi di filo spinato. Lasciando l’autostrada i checkpoint svanivano. Edifici ocra a più piani cominciavano ad affollarsi. Cablaggio elettrico filettato si vedeva tra i balconi. Molte case erano in rovina, ma un numero sorprendente già in fase di ricostruzione. Una tavola di legno appesa, con dipinto a spruzzo, in bianco, con la scritta “Saraqeb”.
Superata la torre radio da cui il cecchino del regime terrorizzava la città, l’insegna sbiadita del Saraqeb Sports Café, il bistrot di Mousab al-Azzo, era appesa sopra il negozio chiuso. Arrivammo alla moschea al-Zawiya, dove Muhammad Haf e Hossein avevano guidato la prima protesta. L’immagine dipinta di una rosa, i petali piegati verso l’interno quasi a formare un pugno chiuso, copriva un muro di cemento lì vicino. Accanto c’era scritto, “Se non combatti per quello che vuoi, non piangere per quello che hai perso.” Era uno dei pochi “Quaderni degli Amanti” ad essere sopravvissuto agli attacchi. Sul muro adiacente era stato dipinto un ragazzo bendato, con una maschera antigas, ma i fondamentalisti ne avevano cancellato il viso.
Ai margini della città, in una piccola casa di mattoni, incontrai un ciabattino disoccupato di nome Fayez Khattab. Nel 2016, il regime bombardò il mercato di Saraqeb, distruggendo il suo laboratorio e uccidendo cinque dei suoi parenti. Durante l’incursione dell’esercito lo scorso febbraio, gli uomini di questo sobborgo mandarono via le loro famiglie e rimasero per proteggere le loro case. Una notte si rifugiarono in uno scantinato. Un’enorme bomba cadde nelle vicinanze.
“Poi abbiamo sentito un suono molto debole, come un pop,” mi ha raccontato Khatab. Gli bruciavano gli occhi, gli uomini gridavano, ma raggiunsero il tetto. “Non riuscivo a vedere nulla. Quattro dei ragazzi iniziarono a vomitare. Io persi i sensi.”
Più tardi, l’Organizzazione per la proibizione delle Armi Chimiche stabilì che “ciò che era stato rilasciato dai cilindri ad impatto meccanico era cloro”. Khatab mi portò sul luogo dell’impatto, un piccolo cratere nel mezzo di un campo asciutto e aperto. Tutto intorno c’erano cumuli bianchi gessosi che un tempo erano stati case. Colonne sporgevano verso il cielo. Non lontano, i graffiti scarabocchiati su un muro: “O Haf, credi che l’occhio non dimentichi mai la palpebra. Credi che il fiore non dimentichi mai le sue radici.”
“Non me ne andrò, non posso andarmene,” diceva. “A chi dovrei lasciare tutto questo? A loro?” Indicava la strada, dove tre uomini col viso coperto in un furgone stavano passando. Era stato imprigionato dal regime prima del 2011 e ora era convinto che i fondamentalisti e Assad rappresentassero due facce della stessa medaglia. “Siamo contro questi gruppi estremisti,” mi ha detto, ad alta voce. “Saraqeb li odia.”
In centro, nel mercato regnava una calma inquietante, come se gli abitanti si fossero preparati al loro destino. I carrelli erano risplendenti di arance e prugne: il venditore vendeva succo di tamarindo. Un gruppo di lavoratori stava ritirando le macerie. In un bar incontrai un vecchio che, avvolto in una kefiah, fumava una sigaretta. “Non me ne andrò, non posso andarmene,” diceva. “A chi dovrei lasciare tutto questo? A loro?” Indicava la strada, dove tre uomini col viso coperto in un furgone stavano passando. Era stato imprigionato dal regime prima del 2011 e ora era convinto che i fondamentalisti e Assad rappresentassero due facce della stessa medaglia. “Siamo contro questi gruppi estremisti,” ha detto, ad alta voce. “Saraqeb li odia.”
Al-Nusra aveva cominciato a riapparire in città, anche se i suoi membri non osavano interferire negli affari locali. A differenza di altre città della provincia di Idlib, non c’era la polizia religiosa, nessuna bandiera di Al-Qaeda. Anche se Saraqeb si trovava nel mezzo di una delle guerre civili più mortifere del mondo, non ho visto un solo uomo armato o un posto di blocco. Mi sono imbattuto in Abu Traad, il capo di una fazione dell’Esercito Siriano Libero, e anche lui era disarmato, indossava pantaloni e una maglietta. Gli attivisti, ho appreso, avevano insistito affinché le armi non venissero trasportate entro i confini della città, immunizzando Saraqeb dalle dispute tra fazioni e proteggendo il governo dei rivoluzionari. Occasionalmente, ho notato i membri di al-Nusra in un veicolo; e sebbene facesse molto caldo, si nascondevano dietro i passamontagna. Molti residenti, nel frattempo, denunciavano liberamente i fondamentalisti: uno mi ha detto, “Queste persone sono una bestemmia a Dio stesso.” Sembra che a Saraqeb, almeno, la gente non abbia paura di al-Nusra; al-Nusra ha paura di loro.
“Prima della rivoluzione, vivevamo la vita di una mandria, senza fare domande. Ma poi ci siamo resi conto del gran numero di menzogne che stavamo vivendo.” È stato un risveglio: al potere contenuto in migliaia di piccoli atti di solidarietà e di sfida, e alla possibilità esilarante che il futuro della Siria potesse riposare nelle sue stesse mani.
Se Saraqeb rappresenta l’anima della rivoluzione, come crede Hossein, suggerisce anche come sarebbe stata la Siria oggi se i rivoluzionari democratici avessero ricevuto più solidarietà internazionale, se fossero stati più uniti e se fossero stati più efficaci nel riscuotere le tasse. Forse avrebbero sconfitto i fondamentalisti nella battaglia per i cuori e le menti. O forse nessuna rivoluzione democratica può sopravvivere ad interventi come quelli messi in atto dalla Russia e dagli stati del Golfo.
Hossein mi aveva detto che avrebbe voluto poter tornare indietro nel tempo, afferrare i suoi compagni per le spalle e supplicarli di nuovo di non armarsi. Aveva solo sottoposto i rivoluzionari al governo della pistola e aveva lasciato al regime una scusa per spianare di bombe le città. Cercava di convincerli che i governi stranieri, anche quelli che si presentavano come amici, avevano una loro agenda. Ma, nonostante tutti gli errori, ora c’era qualcosa di radicato in Hossein, e in decine di migliaia di siriani come lui, che non avrebbe mai potuto essere allontanato. “Prima della rivoluzione, vivevamo la vita di una mandria, senza fare domande,Ma poi ci siamo resi conto del gran numero di menzogne che stavamo vivendo.” È stato un risveglio: al potere contenuto in migliaia di piccoli atti di solidarietà e di sfida, e alla possibilità esilarante che il futuro della Siria potesse riposare nelle sue stesse mani.
Arrivammo al quartier generale del Consiglio Locale che, dopo numerosi bombardamenti, era stato trasferito in un vecchio edificio municipale. Annunci per riunioni e beneficenza erano affissi sulla facciata in marmo. Alcuni uomini gironzolavano fuori. Il rumore continuo di un elicottero riempiva l’aria. Dalla fusoliera, venivano lanciati volantini il cui testo recitava:
“La cooperazione con l’Esercito Arabo Siriano (ndt: il militare del regime) ti libererà dal dominio dei terroristi armati.”
All’interno, un membro del Consiglio, Maher Hassan Najjar, parlava amaramente della possibile distruzione di Saraqeb. “Il mondo si è rivoltato contro di noi,” diceva “L’impegno americano nei confronti dei diritti umani è una bugia.” Facciamo una videochiamata a Hossein, che vive con sua moglie a Gaziantep, in Turchia. Avevano appena avuto un bambino, di nome Aboudeh. Sebbene Hossein parlasse con gioia, ho notato una tristezza, il desiderio di un mondo che suo figlio non avrebbe mai visto. Uno degli attivisti ha rivolto la fotocamera del telefono verso di me, e ho potuto distinguere la faccia di Hossein. “Sei lì,” disse con un enorme sorriso. “Sei nella mia città.”