La tragedia di Daraya

Daraya è – o per meglio dire era – una nota cittadina nell’hinterland rurale di Damasco. Sobborgo abitato da lavoratori e appartenenti alla classe media a due passi dalla capitale, Daraya era anche un polo agricolo, particolarmente noto per la sua uva deliziosa. Negli ultimi anni la città è diventata un simbolo per la rivoluzione siriana, oltre che l’emblema della capacità rivoluzionaria di superare le avversità nelle più terribili condizioni. Ora, dopo essersi arresa al regime di Assad il 25 agosto, diviene simbolo di un disastro ancora peggiore.

Il coraggioso attivismo sociale e politico di Daraya è precedente rispetto allo scoppio della rivoluzione nel 2011. I suoi residenti, infatti, avevano protestato contro l’oppressione israeliana durante la seconda Intifada e in seguito anche contro l’invasione americana dell’Iraq. Coloro che sostengono che il regime di Assad rappresenta l’antisionismo e l’antimperialismo non si renderanno mai conto di quanto coraggiose siano state queste proteste. Le manifestazioni indipendenti erano completamente illegali in Siria, punibili con tortura e incarcerazione, persino se le manifestazioni erano dirette contro gli stati che, si supponeva, fossero nemici della Siria. L’attivismo di Daraya si concentrava anche sugli affari interni della città, schierandosi contro la corruzione locale e mettendo in atto campagne di abbellimento della zona.

L’eredità dell’impegno civico nella città è profondamente legata allo studioso religioso Abd al-Akram al-Saqqa, che introdusse i suoi studenti alla teoria dell'”islamismo liberale”, e alla figura di Jawdat Said, l'”apostolo della nonviolenza” , incarcerato per ben due volte. Jawdat Said dava enfasi, tra le altre cose, ai diritti delle donne, all’importanza del pluralismo e al bisogno di difendere le minoranze.

Nel 2011 Daraya divenne uno dei più importanti laboratori nell’esplorarare le possibilità della resistenza nonviolenta.
Ghiath Matar, conosciuto come il “piccolo Gandhi”, mise in pratica i principi di al-Saqqa e Said per quanto riguarda la pratica di incoraggiare coloro che protestavano ad offrire fiori e bottiglie d’acqua ai soldati che erano lì con l’intenzione di sparare. Ma il regime rispose, come sempre, con la violenza. Matar, un sarto di 26 anni, fu arrestato nel settembre 2011 e quattro giorni dopo il suo corpo mutilato fu restituito ai genitori e alla moglie incinta.

Sin dal principio, nonostante le provocazioni e il “dividi et impera” del regime, il movimento di protesta di Daraya ha sempre rifiutato la polarizzazione settaria. Così come a Deraa e Homs, i cristiani della città presero parte alle proteste e le campane della chiesa suonavano in segno di solidarietà rivoluzionaria per i martiri. Anche se il Salafismo e il jihadismo stavano crescendo altrove in un paese traumatizzato, Daraya conservava la sua tolleranza.

Tutt’altro che tollerante, invece, fu la repressione del regime. Dal 25 agosto 2012 e nelle settimane seguenti, le forze del regime misero in atto a Daraya uno dei peggiori massacri di tutta la guerra. Uomini, donne e bambini furono trascinati per le strade per essere uccisi, oppure venivano colpiti a morte nelle loro case. Furono assassinate come minimo 300 persone. Alcune stime parlano addirittura di mille vittime.

A quel punto divenne evidente che i tormenti imposti a Daraya sarebbero stati ancora più terribili con l’ingresso in campo di attori esterni alla Siria. Il giornalista britannico Robert Fisk entrò nel sobborgo insanguinato grazie alla collaborazione dell’esercito del regime, e “intervistò” i sopravvissuti in presenza dei loro assassini, per poi attribuire ai ribelli i crimini commessi. Il suo resoconto su uno scambio di prigionieri andato male fu immediatamente rifiutato dal Comitato di Coordinamento Locale di Daraya, dal momento che nessuno ne aveva sentito parlare. Nel suo eccellente libro “The Morning They Came For Us”, la giornalista americana Janine di Giovanni racconta la sua visita -effettuata con i civili, non con i soldati – sulle conseguenze del massacro. Intervistate diverse persone del posto, l’autrice non trovò nessuna prova che confermasse la versione dei fatti fornita da Fisk. Tuttavia, il racconto di Fisk persiste tra coloro che prediligono teorie che, paradossalmente, incolpano le vittime.

Il massacro, però, non intimidì i rivoluzionari. Da novembre 2012 la città è stata completamente nelle mani dei residenti e dei difensori dell’Esercito Siriano Libero. Il regime,però, ha risposto imponendo un assedio totale, che è continuato fino alla resa.

La strategia dell’”inginocchiarsi o morire di fame” ha portato al taglio dell’ elettricità, dell’acqua e delle comunicazioni verso Daraya. I suoi confini sono stati sigillati e l’ingresso di cibo e medicine proibito. Le Nazioni Unite non sono riuscite a fornire aiuti umanitari, alzando bandiera bianca di fronte al bullismo di Assad, sebbene varie risoluzioni Onu attestassero che non era necessario il permesso del regime per portare gli aiuti. Il primo e solo convoglio di aiuti che riuscì a raggiungere la città vi entrò nel giugno 2016, ma aveva i connotati di uno scherzo a danno dei residenti affamati e denutriti. I camion, infatti, erano quasi vuoti e contenevano zanzariere e latte in polvere, ma non cibo.

In queste condizioni, nonostante i continui bombardamenti, grandi cose furono realizzate. I residenti,infatti, organizzarono un consiglio locale che si occupava di fornire servizi, inclusi ospedali da campo, scuole, di cucinare zuppe e persino di mettere su una libreria sotterranea. Il consiglio operava su base democratica. I suoi 120 membri, infatti, si sceglievano attraverso pubbliche elezioni ogni sei mesi. Cosa inusuale, e molto significativa, era che le milizie dell’Esercito Libero difendevano la città sottostando alle leggi civili. Anche le donne a Daraya ebbero un ruolo centrale nell’organizzare una delle più impressionanti esperienze a livello mediatico nella Siria libera: un giornale stampato e online-ora anche in inglese – chiamato “Enab Baladi”.

Razan Zaitouneh, una leader rivoluzionaria di spicco oltre che co-fondatrice dei Comitati di Coordinamento Locale, descriveva la città in questi termini:”Daraya era una stella già prima della Rivoluzione e lo è anche durante. Ciò che uomini e donne della città hanno costruito, è il frutto di sforzi immensi e il risultato rappresenta un piccolo modello che bisogna prendere ad esempio per il futuro della Siria, quella che sognamo. L’attivismo nella città non ha mai smesso di sorprenderci neppure per un minuto. Fu a Daraya,infati, che i manifestanti per la prima volta offrirono rose e acqua ai soldati dell’esercito siriano che erano lì per ucciderli… A Daraya, i segni che indicavano la coesistenza continuarono ad essere a livelli alti perfino quando tutto il paese stava cadendo nella disperazione dopo ogni nuovo massacro”.

Questo “modello esemplare” ha resistito a quattro anni di artiglieria e carri armati, bombardamenti aerei, oltre che a 9.000 barili bomba e gas velenosi.

Nelle scorse settimane il bombardamento ha preso di mira e bruciato le colture della città, l’ultima fonte di cibo rimasta. Il 19 agosto, invece, l’unico ospedale superstite è stato distrutto dal napalm. Queste bombe incendiarie sono vietate a livello internazionale e non possono essere usate nelle zone abitate da civili. Altrove in Siria, lo sponsor russo di Assad ha fatto piovere sui civili armi incendiarie – tra cui fosforo bianco e termite – e bombe a grappolo, anch’esse illegali. Dopo il massacro del 2012, il 25 agosto di quattro anni fa, Daraya dichiarava la resa.

Durante la sua sopravvivenza, Daraya ha dimostrato – qualora fosse importato a qualcuno – che le prospettive di democrazia e giustizia sociale in Siria erano vive e in salute. Nessuno aveva detto alla gente della città di organizzarsi democraticamente. Lo hanno fatto da soli perché aveva un senso immediato per loro, e lo hanno fatto straordinariamente bene nelle circostanze più spaventose. Il loro attivismo ha fatto intravedere un possibile futuro – democratico, pluralista, pacifico – che avrebbe avvantaggiato il mondo intero. Eppure l’indegna comunità internazionale ha collaborato alla sconfitta di questa visione.

I colpevoli più ovvi sono stati russi e iraniani, i cui attacchi imperialisti alla Siria hanno conferito potere ai jihadisti e ai fascio-assadisti. Ma anche gli Stati Uniti hanno contribuito. Molti imputano la caduta di Daraya all’inazione – durata mesi – da parte del Fronte Meridionale, una coalizione di milizie dell’Esercito Libero, che ha liberato i soldati del regime concentratisi poi sulla città assediata. L’immobilismo del Fronte Meridionale può a sua volta essere imputato al Centro operativo militare in Giordania, il quale ha bloccato l’arrivo di armi e denaro in risposta alla pressione americana. Mentre il Fronte Meridionale, una formazione nazional-democratica,veniva resa impotente dalla politica degli Stati Uniti, quello jihadista con in testa Jaysh al-Fatah, milizia jihadista nel nord della Siria, è stato in grado di rompere l’assedio di Aleppo. La politica degli Stati Uniti in questo caso non è stata solo moralmente oltraggiosa, ma anche – in relazione alle supposte priorità anti-jihadiste statunitensi – incredibilmente stupida.

La resa di Daraya è stata un disastro in primo luogo per la sua gente. Secondo l’accordo di consegna, i combattenti della città saranno trasferiti nella provincia di Idlib e i civili in altre parti della zona rurale di Damasco. Questo significa la fine per la comunità e, quindi, un altro episodio di pulizia etnica.

Ma questo è un fallimento per il mondo intero. Stati potenti, corpi “umanitari” guidati dallo stato e un giornalismo fraudolento votato al culto dello stato stesso. Tutti hanno fatto la loro parte nella tragedia. L’annientamento della democrazia siriana significa l’inesorabile ascesa del fascismo e del jihadismo oltre che il continuo flusso di rifugiati. Per questo tutti dovranno pagare un caro prezzo.

Di Robin Yassin-Kassab

Dal blog dell’ autore

The Tragedy of Daraya

 

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