Più di 16.000 persone hanno lasciato le loro case nella Ghouta orientale solo negli ultimi cinque giorni, su autobus diretti verso zone governate dall’opposizione, nella Siria nordoccidentale, come parte di un accordo di resa e di evacuazione tra ribelli e governo di Bashar al-Assad.
L’evacuazione in corso del settore centrale della Ghouta Orientale – zona della quale fanno parte città note soprattutto per la loro agricoltura e la produzione di mobili – restituirà quasi tutti i sobborghi orientali di Damasco al controllo dello stato dopo cinque anni di assedio. Rimane solo la città di Douma, la capitale de facto della Ghouta orientale.
I residenti delle zone periferiche della Ghouta Orientale furono tra i primi a protestare nel 2011 contro il governo del presidente siriano Bashar al-Assad. Quando le proteste si trasformarono in conflitto armato, la Ghouta orientale divenne una roccaforte di gruppi ribelli che speravano di prendere Damasco.
Ma l’esercito arabo siriano e le milizie alleate respinsero i tentativi dei ribelli di prendere la capitale e, verso la metà del 2013, circondarono la periferia orientale. Negli anni seguenti, a ribelli e civili furono imposti un assedio strangolante e bombardamenti indiscriminati; subirono inoltre un attacco con gas sarin.
Infine, in un’offensiva su larga scala iniziata lo scorso mese, le forze filogovernative sono riuscite a rompere le linee difensive ribelli e hanno preso rapidamente la maggior parte del settore centrale di Al Ghouta mentre attacchi aerei e artiglieria attaccavano la periferia, causando la morte di oltre 1.700 civili.
Failaq a-Rahman, la fazione ribelle dominante del settore centrale, ha deciso così di accettare un accordo e consegnare la piccola tasca del territorio che ancora controllava ed evacuare verso nord.
Dopo anni di assedio e bombardamenti, i residenti hanno dovuto scegliere: partire con i ribelli o riconciliarsi con il governo. Cinque Ghoutani dell’Est che hanno lasciato le loro case questa settimana hanno parlato con Bahira al-Zarier di Syria Direct mentre stavano facendo i preparativi finali o erano seduti negli autobus per lasciare la zona.
I residenti – un medico, due infermieri, un membro della difesa civile e un combattente ribelle – hanno descritto le ultime visite alle tombe dei propri cari, le ultime passeggiate attraverso le strade familiari e raccontato di aver scavato tra le macerie delle case distrutte nella speranza di ritrovare foto di famiglia.
Hanno parlato di memoria e di cosa hanno dovuto lasciarsi alle spalle nella Ghouta Orientale. Tutti hanno parlato della difficoltà nel dover dire addio.
Il Dr. Waleed Awatah, 43 anni, è un tecnico di anestesia ed ex direttore del Resurrection Medical Center di Zamalka. È originario di Jobar, ma è fuggito dalla sua casa a Zamalka nell’estate del 2017 dovuto alle battaglie tra ribelli e forze governative. Ha lasciato Al Ghouta lunedì con sua moglie ed i loro cinque figli.
Cosa posso dire? Il mio cuore è in mille pezzi. Non c’è niente di così crudele come dover dire addio.
Ci mancherà la terra di Al Ghouta, la sua acqua e la sua brezza. Perderemo tutti i ricordi della nostra infanzia e della nostra giovinezza. Perderemo le tombe dei martiri, che rimangono. I nostri spiriti rimarranno in Al Ghouta anche se i nostri corpi saranno lontani.
Tutto ciò che potremmo ricordare è stato spazzato via mentre gli alberi bruciavano e i fiori appassivano. Quando i ricordi torneranno, i nostri cuori proveranno tanto dolore. È meglio non ricordare certe cose. Sarebbe solo una tortura.
Ho visitato Jobar oggi e ho camminato tra le macerie. Ho salutato la mia casa distrutta. Sono andato ad Arbin e in tutte le altre aree del settore centrale.
Queste città demolite conservano ancora ricordi.
Umm Muhammad, 35 anni, è un’infermiera che ha lavorato nel Resurrection Hospital a Zamalka. Due dei suoi quattro bambini sono morti durante un bombardamento su Zamalka il mese scorso. Ha lasciato Al Ghouta lunedì con suo marito ed i suoi due bambini.
Il mese scorso, due dei miei figli, Muhammad e Osama, sono stati martirizzati, uccisi in un bombardamento. Ho pianto con tutto il mio cuore per loro, e quel dolore sarà con me per il resto della mia vita.
Ma quando è iniziata l’evacuazione, la mia tristezza è stata ancora più grande. Ho perso la mia casa e i miei figli. Abbiamo sopportato di tutto per poter rimanere nella nostra terra.
Mi sento come ogni madre che ha perso un figlio. La mia dignità è tutto ciò che mi rimane in questo mondo. Ecco perché ho scelto di andarmene, e non tendere le mani a chi ha ucciso i miei figli. Non dimenticherò mai come Bashar al-Assad ed i russi hanno distrutto le nostre case e ucciso i nostri figli mentre il mondo non faceva nulla.
Dico addio a Zamalka, ai suoi quartieri e alle sue strade, dicendo: ‘Non dimenticateci. Ricordate i bambini nati e cresciuti qui, che hanno sacrificato tutto solo per poter stare con voi.”
Tutta Zamalka è in lutto. Le madri stanno dicendo addio ai loro figli, che stanno partendo per non essere presi dal regime. I familiari si salutano.
Mi mancherà tutto di qui: gli alberi, la brezza. Mi mancheranno le tombe dei miei figli, che devo lasciare indietro. Mi sono stati strappati via quando erano in vita e accade lo stesso ora che non ci sono più.
Ho visitato le tombe dei miei bambini per dire loro cosa è successo. Ho chiesto ai miei figli di perdonarmi per il fatto di doverli lasciare a Zamalka. Ho detto loro che sono benedetti perché rimangono sepolti in questa terra. Restano qui, come testimoni.
Ripongo la mia speranza in Dio che un giorno torneremo e che tornerà anche la sicurezza che abbiamo avuto in Al Ghouta. Il ritorno è inevitabile, perché la generazione che ha vissuto la fame e gli attacchi non accetterà di vivere sotto un governo assassino e neppure tutte le sue ingiustizie.
I nostri figli non dimenticheranno i giorni vissuti ad Al Ghouta e nemmeno la nostra espulsione. Torneranno vittoriosi, se Dio vuole.
Muataz Sameh, 27 anni, è di Hamouriya ma è fuggito nella vicina città di Ain Tarma dopo l’avanzata delle forze governative due settimane fa. È sposato ed ha un figlio. Ha lavorato come infermiere in un ospedale da campo a Hamouriya prima di lasciare la città. Ha lasciato Al Ghouta lunedì.
Non ho salutato Hamouriya. Il regime non mi ha dato la possibilità. Siamo andati via di corsa non appena gli attacchi si sono fermati.
Quando sono arrivato ad Ain Tarma, onestamente non pensavo che ci sarebbe stata un’evacuazione. Pensavo che le fazioni avrebbero recuperato ciò che avevano perso. L’evacuazione è stata uno shock.
Ain Tarma è anche la mia terra. È pieno di miei amici e parenti. Ero qui quando è stata decisa l’evacuazione e in quel momento ho pianto.
Andare via, è stato come morire.
Mi mancherà la mia casa. Mi mancheranno mia madre e mia sorella, che sono partite per rifugiarsi a Damasco. Non ho saputo nulla di loro, nessuna notizia mi consola.
Ricorderò mio fratello, che è morto in prima linea una settimana fa, e i miei amici che sono morti negli attacchi. Ricorderò quello che abbiamo vissuto, i nostri raduni e le nostre proteste pacifiche.
E sarà impossibile dimenticare ciò che questo regime ci ha fatto.
Mia madre viene da Ain Tarma. Sono andato a casa di suo padre con i miei zii. Ho salutato la casa distrutta tra le macerie. Ho trovato alcune foto di mio nonno e mia madre e le ho portate con me.
Ho fede in Dio, ma purtroppo non nutro ninguna speranza riguardo al fatto che torneremo ad Al Ghouta dopo tutte le uccisioni, le distruzioni e la fame che ho visto qui.
Qualcosa è morto dentro di noi. Partiamo, scappando dalla realtà, il regime ha vinto e noi abbiamo perso. Avrei dovuto morire prima di partire. Sarebbe stato più misericordioso.
Abu al-Baraa al-Arbini, 26 anni, è un combattente della fazione dell’esercito siriano libero Failaq a-Rahman. È sposato, ha due figli e viene dalla città di Arbin. È previsto che partirà con l’ultimo convoglio che lascerà il settore centrale della Ghouta Orientale.
Sono nato ad Arbin e nessun altro posto al mondo sarà mai così bello per me. Dirò addio con le lacrime, baciando la terra e giurando a Dio di tornare.
L’evacuazione sembrava irreale ma è la realtà, la realtà è che le vite civili hanno bisogno di essere salvate. Assad e i suoi alleati hanno mirato a fare terra bruciata per sconfiggerci e per espellerci dalla nostra terra. Lasciare è una resa tortuosa e traumatica.
La notte prima dell’inizio delle evacuazioni, non ho dormito. Ho camminato per le strade e i quartieri della mia città, desiderando che il tempo si fermasse.
Lasciare Al Ghouta è un’enorme perdita e non ci sarà speranza di tornare se la rivoluzione non prenderà la giusta direzione, se le fazioni non si uniranno.
Abu Salam Mohammad, 23 anni, membro della difesa civile siriana di Ain Tarma. Ha lasciato la Ghouta Orientale domenica.
Abbiamo dato tutto ciò che potevamo, ma tutte le paure, i bombardamenti, la distruzione e la fame si sono concluse con la nostra partenza. Sono dilaniato.
Ho salutato mia madre e i miei parenti che hanno scelto di rimanere ad Ain Tarma. Non siamo sicuri di poter dire “ci rivedremo” ma nemmeno “arrivederci per sempre”. Questi addii sono più difficili della morte.
Ho salutato le strade, gli alberi, la brezza e persino le macerie. Ricorderò tutto, perfino le pietre.
Ricorderò i martiri che si sono sacrificati per il bene della rivoluzione. Ci chiediamo se ci perdonerebbero per aver accettato un’evacuazione e consegnato la nostra terra.
La speranza è l’unico modo per sopportare la partenza. Un seme di speranza deve rimanere in ogni persona in modo che la rivoluzione possa sopravvivere. Se la speranza in noi muore, allora la rivoluzione muore con essa – è qualcosa che non possiamo accettare.
Limmagine è di Hani Abbas “Syria”