Articolo scritto da Robin-Yassin Kassab per The New Arab
Tradotto da Filomena Annunziata
Nato marxista-leninista, il Partito dei Lavoratori Curdi, o PKK, si è trasformato in una milizia di partito separatista di impostazione autoritario-anarchica (sì, è un ossimoro) dedito ad una guerra a intermittenza con lo stato turco. Il Partito dell’Unione Democratica, o PYD, è una propaggine del PKK fondata durante la visita di Abdullah Ocalan ad Hafez Al-Assad in Siria. Poiché il suo obiettivo principale era l’opposizione alla Turchia e non la lotta per le libertà civili, il partito è stato a lungo tollerato dal regime.
All’inizio della rivoluzione, con l’espandersi delle aree liberate durante il 2012, le forze di Assad si sono ritirate dalle zone a maggioranza curda senza combattere, cedendone il controllo al PYD. Da allora il PYD ha assunto il controllo delle armi e degli aiuti economici, represso i partiti di opposizione e sparato ai manifestanti.
Allo stesso tempo ha indubbiamente ottenuto una vittoria nazionale per i curdi. Dopo decenni di arabismo forzato, la popolazione locale ha finalmente preso il controllo dei suoi quartieri e i bambini hanno iniziato a frequentare classi in curdo. Attraverso un sistema popolare, il PYD ha anche promosso una forma di democrazia locale. L’assegnazione del 40% dei seggi a donne è un’evidente prova dell’incredibile impegno del partito per l’equilibrio di genere.
Oltre al dichiarato secolarismo del PYD, il fatto che i suoi territori non fossero soggetti alla strategia della terra bruciata di Assad ha protetto queste aree dalla penetrazione di jihadisti stranieri.
Le innovazioni politiche del PYD, nel frattempo, gli hanno garantito l’ammirazione di molti elementi della sinistra e anarchici occidentali. Tristemente, questo supporto è spesso stato acritico e ha ignorato simili esperienze di democrazia dal basso e auto-organizzazione nelle aree liberate e violentemente bombardate oltre il controllo del PYD.
All’inizio, il PYD ha assunto il controllo di tre aree a maggioranza curda, cioè i cantoni di Afrin, Kobani e Jazira. Queste aree (che insieme sono state chiamate Rojava o Kurdistan Occidentale) non sono contigue l’una all’altra. Una forma di autonomia curda potrebbe funzionare, ma non una forma statuale.
Il PYD tuttavia è riuscito a trarre vantaggio sia dalla guerra della Russia ai ribelli, sia dalla guerra della coalizione a guida americana contro l’Isis per connettere i tre cantoni ed espandere il suo territorio. A febbraio del 2016, insieme alla Russia ha conquistato Tel Rifaat, Menagh, e le aree circostanti Afrin. Queste città a maggioranza araba erano governate da consigli locali e difese da ribelli non jihadisti. Sia la popolazione che i ribelli erano stati allontanati dall’aviazione russa (che aveva distrutto in un attacco i tre centri medici di Tel Rifaat) e dalle truppe di terra del PYD. In seguito, a luglio del 2016, il PYD ha conquistato la “Castello Road” che arriva fino ad Aleppo, supportando l’assedio imposto da Assad sulla città e infine la sua resa (a dicembre) alle milizie di Assad finanziate dall’Iran.
Ormai ribattezzato (su proposta americana, come se questo potesse ingannare la Turchia) Forze democratiche siriane – SDF (Syrian democratic force), in cui sono stati incorporati anche soldati arabi, il PYD ha combattuto l’Isis, avanzando sotto la copertura aerea americana. Ad agosto del 2016 ha catturato Manbji, per poi arrivare a sud di Raqqa che, ormai totalmente distrutta e dispopolata, è stata presa a ottobre del 2017. In seguito, con il collasso del controllo militare dell’Isis, le SDF sono avanzate verso la regione di Deir Ez-Zor e ad est fino al confine iracheno. Oggi, l’alleanza PYD-SDF-America e l’asse Assad-russo-iraniano si affrontano lungo il fiume Eufrate.
Un controllo così saldo del PYD in Siria è insostenibile per diverse ragioni, una delle quali è l’irremovibile opposizione del governo turco. Al di là delle presunte accuse di operazioni di pulizia etnica a danno degli arabi a Tel Abyad, i siriani in queste aree hanno un fondato timore di essere diventati pedine in un progetto non-siriano. Molti dei comandanti delle SDF nella battaglia di Raqqa parlavano meglio il turco che l’arabo, e quando i combattimenti nella città araba sono finiti, un enorme poster di Abdullah Ocalan – un curdo turco – è stato appeso nella piazza centrale.
Secondo alcuni osservatori siriani come Hassan Hassan, il modello governativo proposto dalle SDF è considerato da molti tra i migliori presenti nella regione per ora. Un miglioramento smisurato rispetto al malgoverno dell’Isis ha portato ad un inizio di stabilità pur tenendo a bada Assad. Ci si augura che con il ritorno di molti residenti l’influenza del PYD si attenuerà e un controllo locale andrà rafforzandosi. Al contrario, una frammentazione interna alle SDF delle componenti arabe e curde si dimostrerebbe disastrosa e tornerebbe a vantaggio dell’Isis e di Assad.
Oggi le truppe turche sono impegnate accanto all’Esercito siriano libero (sostenuto dalla Turchia) nell’operazione comicamente soprannominata Ramo d’Ulivo, un’aggressione al PYD nella regione di Afrin. L’opposizione ‘ufficiale’ siriana supporta questa operazione, ed è chiaro il motivo. Nel corso della guerra provocata da Assad, stati stranieri hanno diviso il paese in zone di influenza. La Russia e l’Iran appoggiano il regime; gli americani (e a volte i russi) appoggiano il PYD. In questo contesto, è chiaro che i ribelli approfittino della potenza turca per ristabilire un collegamento tra i territori in cui sopravvivono nelle province di Aleppo e Idlib e per liberare alcune città arabe come Tel Rifaat occupate grazie ai bombardamenti russi.
Il supporto dell’opposizione all’operazione turca dovrebbe fermarsi qui e non oltre, cioè appoggiando anche l’occupazione della Turchia di una regione a maggioranza curda come il cantone di Afrin. L’opposizione dovrebbe riconoscere il diritto dei curdi siriani all’autodeterminazione politica nel quadro di una lotta per l’autodeterminazione di tutti i siriani. In termini pratici, dovrebbe accettare il principio per cui le aree a maggioranza curda hanno il diritto all’autonomia lì dove desiderano esercitarla.
Le possibilità che l’opposizione faccia la cosa giusta sono ridotte al minimo. I ribelli hanno bisogno del sostegno e dell’aiuto della Turchia, e la storia recente ha in ogni caso indurito le loro posizioni. I sostenitori del PYD e quelli dell’opposizione devono tener presente che entrambe le parti sono vittime e carnefici. Proprio come il PYD ha bombardato Azaz, i ribelli ad Aleppo hanno colpito i civili curdi a Shaikh Maqsoud. Proprio come il PYD ha falsamente etichettato i suoi oppositori a Tel Rifaat come jihadisti, così membri della Nusra e altri hanno usato il pretesto dell’ateismo del PYD per attaccare i cantoni.
Le relazioni tra il PYD e i ribelli non sono sempre state cattive. Quando l’Isis attaccò Kobani, per esempio, un contingente dell’Esercito siriano libero ha combattuto per difendere la città. E gli osservatori che semplificano e riducono il contesto politico siriano a termini razzisti, dividendo i curdi secolari dagli arabi jihadisti dovrebbero sapere forse che il leader dell’attacco dell’Isis era un curdo.
Infine, l’opposizione ufficiale dovrebbe riflettere sul fatto che il suo fallimento nel sostenere il diritto dei curdi all’autonomia sin dall’inizio della rivoluzione ha solo accresciuto il sostegno nelle aree a maggioranza curda per il PYD e dato al partito una legittimità che prima non possedeva.
Non andrà di certo così, ma l’opposizione farebbe bene a rimediare ai propri errori. Se riconoscesse il diritto all’autonomia oggi, da una posizione di forza, sarebbe tanto meglio. Innanzitutto, perché si tratta della cosa giusta da fare, in linea di principio. Secondo, perché sarebbe nel suo stesso interesse. Il PYD potrebbe ancora scambiare le regioni ad est in cambio di un’assicurazione del regime per un Rojava autonomo. E anche se il PYD venisse sconfitto completamente (una prospettiva improbabile), i destini dei curdi e degli arabi in Siria resteranno strettamente intrecciati. Una guerra aperta tra i due segnerebbe inevitabilmente un passo ulteriore verso la sconfitta del popolo siriano.