Lettere a Samira (6)

A quattro anni dal rapimento di sua moglie Samira Khalil, lo scrittore e dissidente siriano Yassin Al-Haj Saleh ha iniziato a scrivere per lei lettere aperte, pubblicate in arabo e inglese sul sito AlJumhuriya.net. Nelle lettere racconta come è cambiata la Siria durante i tre anni e sette mesi dalla scomparsa di Samira, a partire dal primo attacco chimico sulla Ghouta Orientale, proseguendo con la narrazione delle vicende internazionali e locali che hanno ridisegnato il conflitto siriano. Accanto alla narrazione storica e alle riflessioni di natura politica, le lettere aperte rappresentano l’unica forma possibile di comunicazione, sebbene a senso unico, tra Yassin e Samira.

Lettere a Samira (6)

di Yassin Al Haj Saleh

Traduzione di Roberta Pasini

 

Cos’ho fatto in tua assenza, Sammour? Come per tutto il resto non riesco a raccontarti molte cose, ma le rimando a quando tornerai.

Oltre al lavoro di scrittura che conosci e immaginerai, di nuovo c’è che ho la possibilità di viaggiare in numerosi paesi europei. Sono ancora senza passaporto; ad ogni viaggio devo fare numerose pratiche tra l’ente che mi invita, il consolato del paese in questione e l’Ufficio Immigrazione in Turchia… Una cosa estenuante! Ormai viaggiare da un paese all’altro è diventato un affare politico, o per meglio dire di sovranità, attorniato da pericoli e misure di sicurezza, specialmente per i siriani. I consolati ai quali bisogna recarsi per il documento di viaggio ricordano i reparti di sicurezza asadiani: la nostra condizione nel mondo, Sammur, continua ad essere la stessa condizione della ‘’Siria di Al Asad’’.

Nonostante questo continuo ad essere tra i pochi siriani fortunati che possono viaggiare di tanto in tanto e fare ritorno al luogo di residenza. Finora ho viaggiato in paesi europei, ma in nessun paese arabo né altrove. Sono stato invitato in un paese arabo più o meno un anno fa, ma all’amico che stava cercando di organizzare il mio viaggio, i servizi segreti di quel paese dissero che avrebbero avuto piacere di vedermi non appena avessi visitato il paese, promettendo di darmi il benvenuto. In un altro paese arabo fui invitato da un’università, ma pensavano che avrei potuto risolvere io tutti i problemi legati al fatto di non possedere un passaporto!

In ciascun viaggio ho partecipato ad attività culturali e intellettuali legate alla questione siriana, che ad oggi è una delle maggiori questioni globali, se non la più grande. Una questione che mette in discussione le fondamenta del pensiero, della politica, e dell’attuale ordine mondiale; noi che ne parliamo veniamo guardati con un misto di apprezzamento, ostilità, e perplessità.

Al tempo stesso, nel nostro paese più che in qualsiasi altra parte del mondo, vedi la storia davanti agli occhi; vedi lo Stato nella sua brutalità, pochezza, e necessità; vedi la religione nella sua pazzia e nella sua dimensione terrena; vedi il mondo nella sua ristrettezza, nella sua portata, e nella sua corruzione; vedi gli individui e i gruppi rovesciarsi su se stessi e tra di loro. Vedi sfilare maschere di ogni sorta: la schiavitù porta sul volto la maschera della liberazione; l’odio veste con la maschera dell’amore; il settarismo indossa il velo del patriottismo; l’assassinio chiama se stesso misericordia; la falsità parla con lingua dell’onestà; l’egoismo si spaccia per altruismo e sacrificio; l’impudenza si mette a capo della giustizia… Pressoché tutto ciò che vedi e senti è il contrario di ciò che si afferma. Se non fosse che in tua assenza il mio cuore è appesantito, riflettere su questo mondo rovesciato e alla rovescia sarebbe fonte di piacere intellettuale. Vivere in tempi storici così, a dispetto della disgrazia generale, è una fortuna speciale. Penso che le grandi lotte stimolino il pensiero sulla storia e sul destino umano, e oggi, Sammour, noi ci troviamo in questa condizione. Se solo mi fossi vicino!

Nella scrittura la novità è che scrivo di voi quattro, di Razan, e soprattutto di te. Sammour, scrivere di te non è semplicemente un nuovo argomento, è ciò che anima tutto il resto del mio lavoro. Tu non sei la mia causa, Sammur sei la mia identità.

E scrivere di te, Sammour, è anche la mia cura.

Come tanti profughi siriani, soffro anch’io della “sindrome del sopravvissuto”, il senso di colpa che prevale in chi sopravvive da una disgrazia a cui nessun altro sopravvive. Nel sito di Aljumhuriyah (te lo ricorderai di certo, è ancora attivo e vi scrivo regolarmente) un giovane scrittore chiamò questa sindrome, di cui probabilmente non aveva mai sentito parlare, con un’espressione sintetica molto bella: ‘’la ferita dei salvati’’ Nel mio caso, la ferita è doppia poiché mi sono salvato questa volta, mentre in molti non sono sopravvissuti (e il loro numero è in continuo aumento), ma soprattutto perchè tu non sei tra i salvati. Questa ferita è  il portare da solo la responsabilità della salvezza; questa ferita è ciò che più mi distrugge, Sammour. Questa ferita è tutto ciò che ho fatto attraverso il mio lavoro per resistervi; questa è la ferita per cui gli amici, ognuno di loro con la loro diversa dose di sindrome del sopravvissuto, sono stati di immenso aiuto. Persino i nostri amici turchi condividono in qualche grado questo senso di colpa, che li incoraggia ad esprimere solidarietà e a partecipare con noi alle diverse attività culturali e di protesta. Il loro sostegno è sempre stato di enorme aiuto.

In questi quattro anni, Sammour, ho sempre cercato di non arrendermi alla ferita dei salvati. Penso che vi siano almeno due effetti deleteri. Il primo è che questa ferita porta il sopravvissuto a fermarsi al momento della salvezza, che nel nostro caso coincide con l’uscita dal paese, senza quindi riuscire a comprendere i cambiamenti successivi, condizioni e circostanze della lotta, né la necessità di riformare gli strumenti per poter continuare la battaglia, e mantenere una posizione di liberazione. Penso di conoscere alcuni esempi, sopravvissuti alla nostra prima battaglia, che continuano a combattere la guerra precedente, che non avevano combattuto quando avrebbero dovuto, ma che combattono ora che tutto è cambiato, quando non ha più alcun senso, né ha più la stessa posizione di liberazione. Danno un’impressione vecchia e antiquata, un destino che mi auguro di poter evitare, Sammour.

Il secondo effetto della sindrome del sopravvissuto è l’incapacità di combattere nelle nuove condizioni di rifugiato, sprecando energie con lamentele e recriminazioni, o rimproverando se stessi o gli altri. Sammour, sto cercando di resistere ai sentimenti di colpa che nascono dalla ferita dei salvati per poter continuare la lotta. Penso che il cadere imprigionati nel senso di colpa sia ciò che più distrugge la capacità di lottare, ed è lo stato mentale meno conveniente per essere d’aiuto a coloro che, come te, non sono stati feriti dalla salvezza, o a coloro che si trovano in una situazione peggiore della nostra. Non è facile, lo so per esperienza, Sammour. E’ uno scontro continuo che si rinnova ogni giorno, non si vince mai la battaglia, però possiamo continuare a lottare.

Forse le situazioni di cui non ci si capacita aiutano ad orientarsi, Sammour. Tempo fa io stesso mi trovai nella situazione del non sopravvissuto, ovvero in prigione, mentre i miei compagni ed amici furono feriti dalla salvezza. In quel periodo tu eri nella mia stessa condizione e sicuramente anche i tuoi amici e compagni provarono un sentimento analogo. Cosa speravamo dai salvati mentre eravamo in carcere con la maggior parte dei nostri compagni? Volevamo che continuassero la battaglia dalla quale ci avevano sottratto? Non sempre, solo per quanto fosse loro possibile e secondo la loro valutazione delle condizioni. Volevamo che si arrendessero al senso di colpa e si biasimassero per essersi salvati finchè fossero incarcerati insieme a noi? Proprio no. Speravamo, credo, che restassero salvi, che preservassero loro stessi e nella loro condotta c’era la nostra causa. Nelle prigioni di Hafez Al Asad speravamo che i nostri amici preservassero la loro dignità e la nostra.

Questo è ciò a cui provo ad aggrapparmi, Sammour. Non solo preservare la vostra dignità, non solo preservare la dignità della nostra causa, e la mia dignità personale, ma anche a continuare la battaglia con strumenti probabilmente un po’ diversi rispetto prima, che sono diversi per poter proteggere meglio la nostra causa.

Nel nostro stato non c’è nulla che possa dare soddisfazione, tu ed io, Sammour: tu che sei scomparsa dentro confini ristretti e bui; io scaraventato fuori, lontano, oltre confine. Non mi accontento. Mentre lavoro per contribuire a costruire strumenti più adeguati e una migliore posizione per continuare la nostra battaglia, dopo che perdemmo il giro della rivoluzione, provo continuamente a fare qualcosa che sia legato alla tua causa. Ad oggi non sono riuscito ad arrivare a nulla, Sammour, però continuo a battere alla porta, e spero che un giorno presto la sfonderò per liberarti, liberare Razan, Wael, e Nazem.

Ma prima di tutto e sempre, continuo la battaglia perchè tu hai bisogno di me, e io ho bisogno di me stesso forte per quando tornerai.

Ti aspetto. Tu abbi solo cura di te, te ne prego.

Baci, amore mio.

Yassin

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