L’imperialismo liquido che ha travolto la Siria

Di Yassin Al Haj Saleh, pubblicato il 7 settembre 2023 su New Lines Magazine

(Traduzione di Giovanna De Luca)

Illustrazione di Joanna Andreasson per New Lines

La Siria è un paese di appena 71.498 miglia quadrate di superficie, con una popolazione di meno di 24 milioni di abitanti, eppure vi sono presenti sul suo terrritorio due superpotenze globali (gli Stati Uniti e la Federazione Russa) e tre delle maggiori potenze regionali (Iran, Turchia e Israele). Israele occupa le alture di Golan siriane dal 1967 e oggi effettua incursioni quasi continue nello spazio aereo siriano. Nei secoli passati, prima del periodo di massimo splendore dell’imperialismo europeo e russo, l’Iran e la Turchia erano imperi. Sebbene sia discutibile se si qualifichino ancora come potenze imperiali, non hanno mai abbandonato le loro ambizioni imperiali regionali. Un modo per definirli, a livello regionale, è parlare di loro come “subimperiali”: espansionistici e interventisti, anche militarmente, nei paesi vicini.

Gli Stati Uniti e la Russia hanno storie ben note di espansione e dominio di popoli e territori. L’imperialismo è stato la chiave per la formazione stessa di entrambe le nazioni. Ma mentre il “destino manifesto” della Russia è stato, per secoli, quello di espandersi nelle aree limitrofe dell’Asia centrale e dell’Europa orientale, è stato in Siria che Mosca ha stabilito il suo primo avamposto oltremare. Tornerò più avanti su questo fatto cruciale.

Molteplici poteri imperiali e subimperiali si sono riversati in un piccolo paese quale é la Siria – alcuni di loro per proteggere un regime omicida, ma tutti annientando ogni aspirazione politica di indipendenza tra la sua gente, dividendo settori della società siriana tra loro, e negando ai siriani la promessa di un futuro diverso.

Questa situazione unica è stata resa possibile da una combinazione di strutture e dinamiche interne e internazionali che hanno coinvolto cinque potenze chiave: Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia e Israele.

I fattori interni chiave sono la natura coloniale del governo della famiglia Assad e quelli che ho chiamato gli “imperialisti conquistati” (il titolo del mio libro del 2019 pubblicato in arabo), ovvero gli islamisti salafiti-jihadisti che hanno svolto un ruolo centrale nel conflitto e nella tragedia siriana e che hanno avuto un’enorme parte di responsabilità nel far deragliare la lotta popolare e allontanarla dalle sue iniziali aspirazioni di emancipazione.

Nel loro insieme, la convergenza peculiare e senza precedenti e di tante potenze imperiali internazionali e regionali in un unico paese, é stata rafforzata dalla natura coloniale del governo della famiglia Assad nel corso di oltre mezzo secolo, così come l’“imperialismo conquistato” dagli islamisti, equivale a quello che io chiamo (in riferimento al defunto sociologo polacco Zygmunt Bauman) “imperialismo liquido”.

In una serie di studi influenti, incluso il fondamentale “Liquid Modernity” (1999), Bauman ha teorizzato la condizione moderna come altamente volatile, “incapace di mantenere alcuna forma o seguire lo stesso corso a lungo”, senza nessuno ‘stato finale’ in vista. ” “Lo status di tutte le norme…, sotto l’egida della modernità ‘liquida’… è stato gravemente scosso ed è diventato fragile”, ha scritto. Per evitare che la sua metafora implichi morbidezza, ha sottolineato che “il liquido è tutt’altro che morbido. Pensa a un diluvio, un’alluvione o una diga rotta”.

La Siria è stata inondata, inondata e distrutta da stati imperiali e subimperiali. La serie di potenze globali e regionali che si sono riversate in Siria dopo il 2011 hanno effettivamente trasformato il paese in un contenitore di imperialismo liquido, trasformando e sfigurando il luogo in modi profondi e di vasta portata, senza uno stato finale in vista.

La Repubblica Islamica dell’Iran si è schierata con il regime di Assad fin dall’inizio della rivolta del 2011, che è stata, ovviamente, ispirata da altre rivolte arabe in quella che é diventata nota come la Primavera Araba. Fin dalla sua nascita nel 1979, la Repubblica Islamica ha mostrato tendenze2 / 8espansionistiche, prima sotto forma di “esportazione della rivoluzione” per poi ribattezzarsi come avanguardia di un cosiddetto “asse della resistenza” – una cortina di fumo ideologica che dispiega la retorica antimperialista per giustificare le dittature brutali e i loro programmi autoritari.

Dopo il 1982, dopo la debacle dell’occupazione israeliana del Libano e l’espulsione dei combattenti palestinesi dal paese, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana (IRGC) creò quello che sarebbe diventato Hezbollah, una forza armata settaria in un paese che l’Iran con il quale l’Iran non confina. L’Iran è diventato, di fatto, anche la potenza dominante in Iraq dopo la criminale invasione americana del 2003, e un lungo corridoio è stato aperto da Teheran a Beirut, passando per Baghdad e Damasco. Nel suo articolo “L’altra controrivoluzione regionale: il ruolo dell’Iran nel mutevole panorama politico del Medio Oriente”, Danny Postel, redattore politico di New Lines, ha dettagliato la risposta reazionaria della Repubblica islamica alle rivolte popolari in Siria, Libano e Iraq: una realtà in netto contrasto con la narrazione fin troppo diffusa che pone l’Iran come stato “rivoluzionario”, avanguardia di un “asse di resistenza” regionale. I funzionari iraniani si vantano di controllare “quattro capitali arabe” (Baghdad, Beirut, Damasco e Sanaa). In tutti e quattro i casi, l’Iran ha avuto un’influenza settaria, finanziando e armando gruppi sciiti e investendo nei settori sciiti di altre comunità. Ciò è particolarmente evidente in Siria, dove gli sciiti sono sempre stati una piccola minoranza (circa lo 0,5% della popolazione). Questa politica settaria, il mezzo con cui il regime iraniano ha cercato di consolidare il proprio potere regionale, ha prevedibilmente portato a spargimenti di sangue e atrocità nei quattro domini arabi, ognuno dei quali è ora uno stato in fallimento.

Queste politiche regionali sono un’estensione dei metodi della Repubblica Islamica all’interno dello stesso Iran. Lo sfruttamento delle divisioni etniche e religiose fa parte del modus operandi del regime e brutalizza coloro che resistono. Questa logica repressiva è stata pienamente visibile al mondo a partire dalla rivolta “Donna, Vita, Libertà” iniziata nell’autunno del 2022. Il ruolo imperialista e controrivoluzionario dell’Iran nella regione è un’estensione della sua guerra interna contro il sistema democratico e le aspirazioni del popolo iraniano.

In Siria, il regime iraniano è stato il principale sponsor e protettore delle milizie sciite provenienti da Libano, Iraq, Afghanistan e Pakistan per opporsi alla rivolta siriana. A livello internazionale, l’ideologia legittimante dietro il complesso espansionista-settarizzante dell’Iran è stata la resistenza a Israele e agli Stati Uniti. Ma il ruolo distruttivo della Repubblica Islamica in Siria e altrove supera di gran lunga questa presunta resistenza.

Dall’ottobre 2011, la Russia ha esercitato il proprio potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come arma per proteggere il regime di Assad. Nel marzo 2012, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov dichiarò che la Russia non avrebbe consentito un “governo sunnita” in Siria. (I sunniti costituivano circa il 70% della popolazione prima dell’inizio della rivolta nel marzo 2011.) Si trattava di un’affermazione estremamente criminale, imperialista, razzista e islamofobica, ma Lavrov poteva aspettarsi che non sarebbe stata condannata dalle potenze occidentali, dalle Nazioni Unite o nella sinistra occidentale, perché questo tipo di pensiero era implicito nella logica essenzialista della “guerra al terrorismo (islamico)” fin dagli anni ’90. Quella di Lavrov è stata un’espressione insolitamente schietta di quella logica, pronunciata su un palcoscenico internazionale

.La Russia ha lanciato un intervento militare diretto in Siria nel settembre 2015 per volere di Qassim Soleimani, comandante della Forza Quds, il braccio delle operazioni estere dell’IRGC. La Russia gestisce la base aerea militare di Hmeimim nella Siria occidentale e, nel 2019, ha affittato per 49 anni una struttura navale nel porto marittimo siriano di Tartus. In quanto avamposto russo, la Siria non rientra nell’ambito geografico dell’espansione imperiale russa diretta. La Siria è il primo satellite d’oltremare della Russia.

Secondo Airwars, che indaga sui danni civili nei conflitti in tutto il mondo, la Russia ha ucciso3 / 8quasi 24.000 civili siriani nei primi sei anni del suo intervento nel conflitto. Nel settembre 2022, la Rete siriana per i diritti umani ha stimato che la Russia abbia commesso più di 360 massacri nel paese utilizzando fosforo illegale e munizioni a grappolo. Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu si è vantato di aver testato “tutte le ultime armi russe” in Siria. Lo stesso presidente Vladimir Putin ha affermato che “oltre l’85% dei comandanti dell’esercito russo ha acquisito esperienza di combattimento in Siria”. Sergey Chemezov, amministratore delegato del colosso russo delle armi Rostec, ha affermato che, nel 2018 e nel 2019, la Russia ha ricevuto ordini di armi dai paesi del Medio Oriente per un valore di oltre 100 miliardi di dollari

.Avendo esercitato il proprio potere di veto 18 volte per proteggere il regime di Assad dalla censura internazionale, il rapporto della Russia con la Siria può essere visto come parallelo a quello degli Stati Uniti con Israele. Possiamo quindi parlare di “palestinizzazione” del popolo siriano attraverso massacri, espropri e pulizia etnica.

Strutturalmente parlando, e nonostante la loro distanza geografica, gli Stati Uniti sono una potenza nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Da allora, ogni dieci anni la regione è stata scossa da una grande guerra che vedeva come protagonisti gli Stati Uniti o Israele. Consideriamo le guerre del 1956 (Suez), 1967 (Guerra dei Sei Giorni), 1973 (Guerra d’Ottobre), 1982 (invasione israeliana del Libano), 1991 (Guerra del Golfo), 2003 (invasione americana dell’Iraq), 2006 (guerra Israele-Hezbollah) e le periodiche operazioni israeliane volte a “falciare l’erba” a Gaza, Jenin e altrove. A tutti questi conflitti è stata data copertura geopolitica dalle successive amministrazioni statunitensi. In una joint venture di eccezionalismo americano-israeliano, i due paesi hanno violato il diritto internazionale e si sono resi dei valori anomali nella comunità internazionale sulla questione della Palestina.

Dall’inizio del 2013, Washington ha visto la lotta siriana attraverso la lente di una “guerra al terrorismo”. Le affermazioni essenzialiste che riducono il conflitto all’espressione di forze senza tempo e trans-storiche o di “antichi odi settari” hanno fornito una comoda scorciatoia per i politici e gli esperti occidentali di tutto lo spettro ideologico. Ci viene presentata una sola opzione: la guerra, intrapresa da coloro che godono di una decisiva superiorità militare.

Agli occhi dei politici statunitensi, il “terrorismo” ha eclissato le guerre di aggressione, la brutale repressione di regimi tirannici e persino il genocidio – “il crimine di tutti i crimini”, nelle parole del giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin (che ha coniato il termine durante la Conferenza della Seconda Guerra Mondiale) diventando il male supremo nel mondo. Pertanto, nel 2015, gli Stati Uniti hanno istituito un programma per armare e addestrare i ribelli siriani, con la condizione cruciale che avrebbero combattuto solo contro lo Stato Islamico, non il regime di Assad (i ribelli erano contro entrambi e avevano già combattuto lo Stato Islamico). I risultati di questo programma di “formazione ed equipaggiamento” furono sconcertanti. Solo 65 uomini accettarono le condizioni e furono catturati dai jihadisti prima di sparare un solo proiettile

.Il massacro chimico nella Ghouta dell’agosto 2013 ha oltrepassato la famosa “linea rossa” del presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Eppure, meno di tre settimane dopo, gli Stati Uniti e la Russia hanno raggiunto un accordo per smantellare l’arsenale chimico del regime di Assad ed esentarlo dalle sanzioni previste dal diritto internazionale. L’accordo ha dato carta bianca ad Assad per continuare la sua furia omicida con altre armi – e, in pratica, anche con le stesse armi chimiche che si supponeva fossero in fase di smantellamento. (La stragrande maggioranza degli attacchi chimici in Siria – 311 su un totale di 349, secondo il Global Public Policy Institute con sede a Berlino – è avvenuta dopo la conclusione dell’accordo.) Giustizia e verità furono sacrificate insieme alle 1.466 vittime del massacro. Il massacro e ciò che ne seguì furono anche doni alle forze islamiste nichiliste, che capitalizzarono tali ingiustizie (e l’impunità con cui furono inflitte) nelle loro narrazioni.

Nel 2014, gli Stati Uniti sono intervenuti contro lo Stato Islamico e Jabhat al-Nusra4 / 8(successivamente ribattezzato Hayat Tahrir al-Sham). In precedenza, in Afghanistan e Iraq, Washington aveva coltivato i metodi imperialisti e nichilisti di tali gruppi islamici militanti. L’America controlla anche un’ampia fascia della Siria orientale e nord-orientale attraverso i suoi alleati curdi, che hanno scelto di non combattere il regime di Assad perché il loro nemico principale è la Turchia.

Secondo un rapporto di Amnesty International dell’aprile 2019, più di 1.600 civili sono stati uccisi nella mia città natale, Raqqa, dalle forze della coalizione guidate dagli americani nel corso della loro “guerra al terrorismo”.

Nel 2016, come le altre quattro potenze, la Turchia è intervenuta in Siria in nome della “lotta al terrorismo”. Ma i “terroristi” nel mirino erano i curdi siriani affiliati al PKK, il partito nazionalista curdo impegnato in una lotta armata con Ankara dagli anni ’80. Il ramo siriano del partito (il PYD) è stato determinante nell’intervento degli Stati Uniti contro l’ISIS. Questo fatto geopolitico ha causato notevoli attriti tra Washington e Ankara. Ma l’amministrazione Donald Trump ha tradito i curdi nel 2018, quando ha accettato l’espansione della Turchia nelle aree controllate dal PYD e l’occupazione di Afrin, e poi ancora nel 2019, quando l’esercito turco ha occupato Ras al-Ain. Afrin e Ras al-Ain sono due città siriane a maggioranza curda rispettivamente nella parte nordoccidentale e nordorientale del paese. La Turchia e il PKK hanno esportato la loro guerra civile in Siria, che ha avuto, ed ha tuttora, una propria guerra civile.

È diventato comune per la gente dire – sia per esasperazione che per pigrizia – che il conflitto siriano è “complicato”. È complicato. Come potrebbe essere altrimenti, con tutti questi stati e attori substatali coinvolti?

La Turchia ospita circa 3,7 milioni di rifugiati siriani, poco più della metà del numero totale (che si avvicina ai 7 milioni). Ma dal 2016, la mobilità dei siriani all’interno della Turchia è stata gravemente ridotta: i rifugiati hanno bisogno di un permesso speciale per viaggiare dalla comunità in cui si sono registrati verso altri luoghi. Questa misura è stata introdotta dopo un accordo tra Turchia e UE, siglato nel febbraio 2016, volto a impedire ai rifugiati siriani (e non siriani) di arrivare in Europa.

In Turchia è cresciuta l’idea di individuare come capro espiatorio i rifugiati siriani, raggiungendo recentemente livelli isterici con le richieste di rimpatri forzati. I rifugiati sono accusati dei problemi economici della Turchia: sono stati razzializzati e demonizzati da populisti e demagoghi come Umit Ozdag, leader del Partito della Vittoria ultranazionalista e di estrema destra turco. Per ragioni elettorali, il governo turco ha annunciato un programma di ritorno consensuale dei rifugiati in Siria, e il presidente Erdogan ha dichiarato che all’inizio di ottobre 2022 erano tornati 526.000 rifugiati. Recentemente ha affermato che 1 milione sia tornato in Siria per volontà propria. È impossibile verificare questo numero da fonti indipendenti. Tuttavia, il governo turco potrebbe utilizzare questo programma come pretesto per popolare alcune aree a maggioranza curda con siriani non curdi al fine di risolvere il proprio “problema” (causando grossi problemi alla Siria in futuro). D’altra parte, l’ingegneria demografica è sempre stata uno degli strumenti dell’imperialismo.

Lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica, sull’esproprio e sull’espansione. I leader ashkenaziti dell’Yishuv (la popolazione ebraica residente in Palestina prima del 1948), che avevano stretto legami cordiali con le élite coloniali delle principali potenze occidentali, si imbarcarono in un progetto di espropriazione e spostamento del popolo palestinese in quella che chiamano “la Guerra dell’Indipendenza”. È innegabile che Israele sia uno stato coloniale. La “Dichiarazione di Balfour” del 1917, che annunciava il sostegno britannico alla costruzione “in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”, fu inclusa nel mandato coloniale britannico sulla Palestina, stabilito nel 1922.

Nel 1956, Israele occupò brevemente la penisola egiziana del Sinai, in collaborazione con gli5 / 8invasori britannici e francesi, in seguito alla nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez da parte del presidente Gamal Abdel Nasser. Le tre potenze coloniali dovettero ritirarsi dopo la forte pressione da parte dei centri imperiali globali allora in ascesa: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Nel 1967, Israele – questa volta pienamente sostenuto dagli Stati Uniti – occupò nuovamente il Sinai, così come ciò che restava della Palestina (Cisgiordania, Gerusalemme Est, Striscia di Gaza e le alture del Golan siriane).

Successivamente Israele si impegnerà in molteplici guerre in Libano contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e poi contro Hezbollah. Numerose campagne militari israeliane hanno preso di mira la Striscia di Gaza e i campi profughi in Cisgiordania. Tutte sono state giustificate come “lotta al terrorismo” (cioè a qualsiasi resistenza palestinese) e come soddisfacimento delle esigenze di sicurezza apparentemente insaziabili di Israele. Privando il popolo palestinese del diritto all’autodeterminazione, Israele rifiuta anche di riconoscere il popolo palestinese come cittadino con pari diritti in un unico Stato. Questa situazione attuale è stata una fonte persistente di violenza in Palestina e di instabilità nella regione.

A partire dal 2013, in risposta all’intervento dell’Iran a sostegno del regime di Assad in seguito alla rivolta siriana, Israele ha periodicamente inviato i suoi aerei a bombardare all’interno della Siria, principalmente contro strutture militari iraniane. Alla base di questi raid c’è una logica di impunità e di eccezionalismo israeliano normalizzato a livello internazionale.

Lo Stato e la società israeliani si stanno costantemente spostando verso destra a partire dagli anni ’70, seguendo una traiettoria inscritta nella logica stessa del colonialismo, dell’apartheid e dell’eccezionalismo che risale alla formazione dello Stato.

La dittatura dinastica familiare che governa la Siria da 53 anni ha ridotto il paese a un protettorato iraniano-russo per poter mantenersi al potere “per sempre”, per citare uno slogan pro-regime. Per raggiungere questo dominio eterno, si affida ad agenzie di sicurezza settarizzate e a formazioni militari altrettanto settarizzate anch’esse con funzioni di sicurezza.

Dagli anni ’70, ciò che chiamiamo “settarismo” in Siria (e nel Medio Oriente più in generale) non si riferisce più semplicemente a una forza irrazionale nella sfera politica e sociale, né alla strategia coloniale “dividi et impera” successivamente adottata dalle élite “nazionali” che sostituirono i colonizzatori europei. Si riferisce in modo sempre più pericoloso anche al crescente potenziale di guerra civile e genocidio. La convergenza di decenni di governo della famiglia Assad in Siria con il paradigma coloniale è vista non solo nelle sue strategie di “divide et impera”, ma anche nel suo utilizzo di uno stato di emergenza permanente. Questo stato di emergenza è in vigore dal marzo 1963, quando gli ufficiali militari presero il potere in nome del partito Baath, ma dal 2011 la sua giustificazione si è spostata dalla guerra contro il nemico coloniale israeliano alla guerra al terrorismo. Da 60 anni ormai il Paese è segnato dalla sospensione della legge e da una guerra civile che oscilla tra il freddo e il rovente.

Sotto questo dominio dinastico, la Siria è uno stato rovesciato che, internamente, tratta la società secondo una logica unitaria di sovranità in cui la Siria deve essere una, indivisa, ovunque, in cui non è possibile alcuna diversità di opinioni o desideri. Questo Stato al rovescio tratta la popolazione come se fosse un esercito disciplinato e obbediente, privo di pluralità e spontaneità, collaborando nel contempo esternamente con Stati potenti nella regione e nel mondo secondo una logica pluralistica, in cui i problemi sono sempre affrontati con soluzioni politiche. Gli unici trattati che il regime ha rispettato sono quelli con poteri influenti, compreso Israele: le alture del Golan sono perfettamente calme dall’accordo di cessate il fuoco del 1974 che seguì la guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973.

Ciò che abbiamo avuto in Siria dagli anni ’70 è stata la continuazione del dominio coloniale con altri mezzi. L’impero francese occupò brutalmente la Siria tra la fine della prima guerra mondiale e6 / 8la fine della seconda guerra mondiale. Ma il dominio coloniale francese è stato molto meno violento di quello del regime di Assad, sotto il quale la Siria ha vissuto due guerre civili con dimensioni genocide: dal 1979 al 1982, con decine di migliaia di vittime, e dal 2011 ad oggi, con centinaia di migliaia di vittime e 7 milioni di rifugiati in 127 paesi (quasi il 30% dell’intera popolazione, secondo un rapporto di Human Rights Watch del 2022).

Il concetto di “colonialità del potere” del defunto sociologo peruviano Anibal Quijano, che evidenzia gli effetti duraturi della dominazione coloniale sull’esercizio del potere nelle società moderne, non è semplicemente una categoria analitica. Invitare l’Iran e la Russia a proteggere il regime è la realizzazione della logica fondamentalmente coloniale del regime di Assad. La guerra imperialista al terrorismo non ha fatto altro che consolidare la colonialità e la capacità omicida del regime.

Uno degli slogan delle recenti proteste scoppiate nella città meridionale di Sweida il 20 agosto 2023 si rivolge direttamente al complesso imperiale-coloniale che controlla la Siria:

Vogliamo il porto marittimo, vogliamo la terra (il petrolio, in un’altra formula) e vogliamo che ci venga restituito l’aeroporto!

Il porto marittimo è Tartus, che, come accennato, è stato affittato alla Russia. Il territorio è diviso tra le cinque potenze occupanti. E ormai da diversi anni l’aeroporto internazionale di Damasco è stato ampiamente percepito come sotto il controllo de facto iraniano. I manifestanti di Sweida tracciano quindi un collegamento tra le loro difficoltà economiche e le relazioni coloniali tra il regime e i suoi protettori russi e iraniani. Nella versione dello slogan che fa riferimento al petrolio, l’implicazione è che esso è stato usurpato da un’altra potenza imperiale: gli Stati Uniti.

Le proteste a Sweida hanno riattivato gli slogan della rivoluzione del 2011, incluso uno dei suoi gridi di battaglia distintivi: “Il popolo vuole la caduta del regime”. Il regime di Assad, che da tempo sostiene (esattamente come fecero i colonizzatori francesi in Siria) di essere il protettore delle comunità minoritarie del paese contro la maggioranza sunnita, finora non ha represso le proteste (Sweida è un’area a maggioranza drusa). Ma nessuno dovrebbe aspettarsi che questa rivolta venga tollerata a lungo. È improbabile che la risposta del regime prenda la forma di massacri chimici o di barili bomba; mirerà invece, probabilmente, a decapitare il movimento assassinando o facendo sparire i suoi leader e altri attivi al suo interno.

Nessuna discussione sull’imperialismo liquido che ha colpito la Siria può trascurare gli “imperialisti conquistati”, i campioni dell’islamismo salafita-jihadista, che è diventato un fenomeno globale sin dalla sua comparsa in Afghanistan nei primi anni ’80. L’immaginario politico degli islamisti salafiti-jihadisti riguarda la conquista, l’espansione, l’impero e il controllo. La loro visione del mondo emana dall’Islam, una religione monoteista con una visione solidamente universale, ma essi si riferiscono a una sola tradizione islamica, quella della conquista, del potere e della stretta osservanza della giurisprudenza islamica. Non si collegano mai ad altre tradizioni: razionali, spirituali, sufi o popolari. La loro violenta disciplina dei corpi, soprattutto di quelli delle donne, ha una qualità inconfondibilmente fascista. Sono altamente elitari quando si tratta della vita ordinaria nel mondo attuale, ed estremamente nichilisti quando si tratta dei costumi, delle leggi e delle istituzioni mondane di quel mondo.

Definirli elitari potrebbe sembrare controintuitivo. Lasciatemi spiegare. Credono che solo pochissime persone siano veri credenti e sulla retta via, e che il potere dovrebbe essere nelle mani di un uomo, circondato da un piccolo gruppo di uomini influenti. La natura amorale della politica delle grandi potenze, con il suo disprezzo per il diritto internazionale e la discriminazione contro i musulmani, è in realtà una buona notizia per i jihadisti, perché queste cose giustificano la loro negazione del mondo corrotto, ingiusto ed essenzialmente anti-islamico. Il loro è un nichilismo che si autoavvera e si autoperpetua.

7 / 8Questo islamismo militante è stato in guerra contro l’imperialismo occidentale e, in una certa misura, anche contro l’imperialismo russo. Ma la sua stessa logica imperialista, così come lo straordinario narcisismo dei suoi soldati, elimina ogni possibile elemento di emancipazione nella loro lotta. I loro metodi terroristici elitari hanno sempre indebolito i musulmani comuni sotto il loro governo. Sotto il loro controllo, la mia città natale di Raqqa era divisa in un’élite dominante composta principalmente da muhajireen (immigrati) non siriani; cittadini comuni musulmani siriani sfruttati e brutalizzati; e una piccolissima minoranza di non musulmani, vale a dire cristiani, che erano sudditi di seconda classe. Le donne non potevano uscire di casa a meno che non fossero completamente vestite di nero.

L’argomentazione di Lenin secondo cui l’imperialismo rappresenta “lo stadio più alto del capitalismo” ha portato molti a pensare all’imperialismo come incarnato in pochissime potenze capitaliste. Secondo questa logica, dalla Seconda Guerra Mondiale c’è stato un solo imperialismo: l’imperialismo occidentale, con gli Stati Uniti come centro e la NATO come braccio militare. L’Unione Sovietica non era generalmente vista dagli esponenti della sinistra come imperialista: né dopo la Seconda Guerra Mondiale, né dopo aver invaso l’Ungheria nel 1956 e la Cecoslovacchia nel 1968, e nemmeno dopo aver invaso l’Afghanistan nel 1979. Allo stesso modo, la Russia di Putin non è stata generalmente vista come imperialista nemmeno dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e l’intervento in Siria nel 2015. Per gran parte della cosiddetta sinistra antimperialista, nemmeno l’invasione su vasta scala dell’Ucraina nel febbraio 2022 è stata sufficiente.

Questa concezione dell’imperialismo deve essere messa in discussione. Il caso della Siria richiede un cambiamento di paradigma nella comprensione dell’imperialismo e nella teorizzazione di nuove pratiche e fenomeni ad esso relativi.

Ultranazionalismo, espansione, negazione del diritto internazionale, eccezionalismo, immaginari imperialisti: queste sono le caratteristiche di molte potenze nell’era della guerra al terrorismo. Con il “terrore” identificato come il principale male politico a livello globale, qualsiasi stato che si unisca a questa presunta guerra può ottenere legittimità internazionale, anche quelli coinvolti in crimini di guerra e omicidi su scala industriale. Ciò ha inferto gravi colpi allo stato di diritto sia a livello locale che internazionale. Ha contribuito a una politica cartolarizzata, ha promosso la criminalità tra le élite politiche e ha indebolito la democrazia e i movimenti popolari ovunque. L’imperialismo ha permeato le pratiche di potere in molti paesi, tra cui la Siria che è probabilmente il più sfortunato, con non meno di cinque potenze espansionistiche sul suo territorio.

Il concetto di imperialismo liquido è un tentativo di catturare il fatto che cinque diverse potenze sono penetrate in un piccolo paese. Ma é un riferimento anche della mancanza di solidità e coerenza nelle strategie, nelle pratiche, nelle visioni e negli impegni di questi poteri. A differenza dei progetti imperiali del passato, in Siria non esiste una “missione civilizzatrice”. Le risorse naturali non sono un motivo primario (sebbene gli stati intervenuti abbiano sequestrato tutto ciò su cui riescono a mettere le mani, dal petrolio ai fosfati ai porti marittimi e agli aeroporti, all’acqua e alle proprietà immobiliari). Si tratta piuttosto di una corsa per controllare il futuro del Paese.

C’è anche un aspetto liquido nei rapporti tra le cinque potenze coloniali. In Siria abbiamo due Russie, una delle quali si chiama Stati Uniti. A livello retorico (soprattutto all’inizio della rivolta), Mosca e Washington sembravano essere su fronti opposti: il Cremlino era al fianco di Assad e la Casa Bianca lo denunciava. Eppure, a livello operativo, la Russia e gli Stati Uniti erano effettivamente dalla stessa parte, soprattutto dopo che lo Stato Islamico era entrato in scena ed era diventato il fulcro centrale della strategia americana in Siria. Da quel momento in poi, Mosca e Washington sono state sulla stessa lunghezza d’onda: le due potenze coordinavano strettamente il “deconflitto” e il loro personale militare si telefonava quotidianamente per evitare che aerei volassero nello stesso luogo alla stessa altitudine e per garantire che gli attacchi aerei non colpissero gli aerei degli altri. Nonostante tutte le spacconate sul fatto che Washington volesse un “cambio di8 / 8regime” in Siria, è vero l’esatto opposto. Il ricercatore Michael Karadjis ha dimostrato che la politica statunitense in Siria è stata decisamente di “conservazione del regime”.

In un’altra cortina di fumo retorica, l’Iran rivendica un’ideologia di “resistenza” ma, in Siria, è intervenuto per schiacciare la resistenza e salvare una dittatura.

La situazione è liquida anche nel senso che non abbiamo gli strumenti per concettualizzarla adeguatamente. La Siria è un caso unico di incomprensione e incredulità. Come hanno sottolineato diversi osservatori, la Siria potrebbe essere la guerra più documentata della storia, con milioni di immagini, video e post sui social media che raccontano ogni aspetto del conflitto – eppure questa abbondanza di documentazione coesiste con una guerra di narrazioni sul significato dei documenti. . Ogni affermazione di verità ha una corrispondente domanda riconvenzionale; ogni affermazione viene accolta con una smentita e le teorie del complotto abbondano. Non solo le vaste prove documentali non sono riuscite a creare un consenso sulla guerra ma, come sostiene la politologa Lisa Wedeen nel suo libro del 2019 “Apprensioni autoritarie: ideologia, giudizio e lutto in Siria”, l’enorme volume di materiale ha invece portato ad un’ “atmosfera di dubbio”, che genera diffusa confusione e smarrimento. Paradossalmente, come mostra Wedeen, “troppe informazioni possono generare proprio l’incertezza che la loro circolazione dovrebbe dissipare”.

Il socialismo in un (grande) paese –come l’Unione Sovietica – fu trasformato in una fonte di legittimazione per il potere assoluto che tradì l’ideale socialista e portò alla repressione e all’omicidio di massa. L’imperialismo in un piccolo paese è una condizione piuttosto nuova, se si considera che, storicamente, l’imperialismo è stato caratterizzato da uno o pochissimi centri imperialisti che si espandevano con la forza su vaste aree e continenti, mentre quello che abbiamo qui è la convergenza di molte potenze imperialiste e subimperialiste su un unico paese. È come se diversi delinquenti abusassero di un bambino: c’è solo una possibilità molto remota che il bambino sopravviva. È un crimine imperdonabile che dovrebbe perseguitare il mondo.

Per la teorica politica Hannah Arendt, l’“assenza del mondo” è una condizione in cui non condividiamo più istituzioni o sistemi di significato comuni con gli altri. È “come un deserto che prosciuga lo spazio tra le persone”, nelle parole della filosofa Siobhan Kattago. L’assenza del mondo della Siria – la sua separazione dalle istituzioni condivise del mondo, e allo stesso tempo gran parte del mondo è in Siria e gran parte della Siria è gettata ovunque nel mondo – è anche un presagio inquietante di un mondo sempre più sirianizzato, in cui la tragedia che ha travolto e distrutto la Siria non viene contenuta, ma sta piuttosto diventando un cataclisma senza confini.

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